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Tag: storia

Al museo di storia della mezzadria di Senigallia una mostra sulle antiche rotte commerciali

Una mappa dell'Italia in una stampa del XV secolo, icona della mostra a Senigallia

Venerdì 5 agosto si è tenuta l’inaugurazione della mostra “Senigallia e l’Adriatico sulle antiche rotte commerciali (secoli XV-XX)”, nel chiostro del Museo di storia della mezzadria “Sergio Anselmi”. Ecco l’intervista alla curatrice Ada Antonietti.

Professoressa Antonietti come è nata questa esposizione? Ci parli della sua realizzazione.
Per molti anni ho collaborato con il professore Sergio Anselmi sia nel Museo, nel quale dopo la sua morte mi è stato affidato dall’Amministrazione Comunale l’incarico di Direttrice, sia nella pubblicazione di tanti suoi studi che con notevole capacità di lettura e di analisi di documenti d’archivio danno un quadro ampio e molto dettagliato dell’economia marittima e dell’economia mezzadrile della regione Marche. Partendo da questi e utilizzando altre pubblicazioni della Biblioteca del Museo già sette o otto anni fa ho inteso illustrare con questa mostra il legame tra lo strumentario del lavoro e della quotidianità di vita dei mezzadri, rappresentato dagli oggetti esposti nel Museo, e il porto di Senigallia, che per secoli è stato uno dei più importanti del medio Adriatico. 

Come è riuscita a raccontare questo importante pezzo di storia per Senigallia e le Marche?
Attraverso pannelli con molte immagini e brevi schede che rispondono a varie domande. Non va dimenticato che nel lungo periodo qui illustrato, che va dal Quattrocento fino al secondo dopoguerra, gli scambi economici e culturali anche con l’arrivo di immigrati dall’altra sponda dell’Adriatico…

Continua a leggere l’intervista completa sull’edizione digitale del 5 agosto, cliccando QUI.
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A cura di Marco Pettinari

La storia del duomo e del palazzo vescovile di Senigallia, oggi splendenti dopo il restauro

Il duomo e piazza Garibaldi, a Senigallia, in una cartolina di inizio '900. Gentile concessione di Virginio Villani
Il duomo e piazza Garibaldi, a Senigallia, in una cartolina di inizio ‘900. Gentile concessione di Virginio Villani

Dovevano iniziare già nel primo semestre del 2021 ma sono partiti solo tra settembre e ottobre scorso i lavori di manutenzione sulle facciate di duomo e palazzo vescovile cittadino. Oggi, finalmente, vengono riscoperti e restituiti alla comunità due tra gli edifici più datati del centro storico senigalliese, che risalgono alla fine del ‘700, con la seconda ampliazione della città in un’area non ancora insediata. Datati, forse anche dimenticati per certi versi, occultati com’erano dalla vegetazione fino al 2016, anno di rifacimento di piazza Garibaldi. In quell’occasione, sono stati fatti sparire gli alberi e la città ha potuto apprezzare, sacrificando il poco verde rimasto, la monumentalità dei palazzi che la circondano.

«A settembre è partito l’intervento al palazzo vescovile, mentre quello sulla cattedrale un mese dopo. Non c’erano criticità strutturali o rischi per la sismicità dell’edificio – spiega la responsabile dei lavori, arch. Stefania Copparoni – ma era ora che si intervenisse per ripristinare l’aspetto estetico. Crediamo che negli ultimi cento anni non sia stato ritoccato granché, tranne un necessario intervento a seguito del terremoto del ’30 e un ritocco esterno oltre 20 anni fa».

Ma quando “nascono” gli attuali edifici di cattedrale e palazzo vescovile? Di certo Senigallia non ne era priva, ma fino alla metà del ‘700 erano localizzati…

Continua a leggere nell’edizione digitale di giovedì 24 marzo, cliccando qui.
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Giorno del Ricordo: la tragedia delle foibe, una breve ricostruzione storica

L’esodo degli istriani e dalmati

Il Parlamento italiano, con apposita legge del 2004, ha scelto il 10 febbraio (a 57 anni dal Trattato di Parigi) come “giorno del ricordo” per commemorare le vittime della tragica vicenda, degli “infoibamenti”, che coinvolsero nel passaggio tra guerra e dopoguerra le terre giuliane e istriane (1943-1945) e i successivi esodi di intere comunità italiane dalle regioni slave (Fiume, Pola, Dalmazia, Capodistria etc.). Le foibe sono cavità carsiche, a forma di imbuto, scavate dal corso dei fiumi, profonde fino a circa 200 metri. In esse a partire dall’8 settembre 1943 fino al 1946 furono gettati, legati l’uno all’altro, migliaia di militari e civili italiani, uomini, e donne, prima torturati, spesso ancora vivi, ad opera delle truppe di Tito con la connivenza di partigiani italiani. L’eliminazione fisica toccò il suo culmine nel 1945: dapprima coinvolse l’Istria e poi Trieste (occupazione titina tra maggio/giugno 1945) e la Venezia Giulia: sono stati calcolati all’incirca 10.000 morti. Fu non solo lotta contro i fascisti, nazifascisti o collaborazionisti: fu anche “pulizia etnica”. Al dramma delle foibe si accompagnò e seguì il fenomeno dell’esodo dalle regioni friulane e dalmate: complessivamente 300.000 – 350.000 persone lasciarono le loro terre a causa di persecuzioni, spoliazioni di beni, intimidazioni compresa la cancellazione della propria identità nazionale e culturale. L’ultimo esodo di circa 50.000 persone si verificò nel 1954 a Capodistria dopo il passaggio della stessa area (zona B) alla Jugoslavia (mentre Trieste – zona A – tornerà italiana).

Ci si è interrogati sui motivi che hanno condotto a tanta violenza e a tanta efferatezza. Il fenomeno va inquadrato nel vuoto di potere lasciato dal crollo del regime nazifascista e dall’inserimento del progetto del movimento di liberazione jugoslavo teso a realizzare un nuovo ordine alternativo, nel quale confluivano le due componenti nazionale e ideologica (comunismo). Ad esse però occorre aggiungere il ricordo doloroso delle violenze che il regime fascista aveva lasciato nelle popolazioni slovena e croata in territorio italiano e quella nazifascista con l’occupazione della stessa Jugoslavia. Quindi intolleranza politica e spirito nazionalistico si unirono a vicende “personali”, delazioni, rese dei conti, motivi sociali e non, ultimi atti criminali in quanto tali. Solo l’intreccio di questi fattori può spiegare comportamenti altrimenti inspiegabili, oltre al fatto stesso della guerra e l’assuefazione alla violenza di per sé.

Un’altra questione va affrontata: il perché del duraturo oblio che ha coperto il dramma delle foibe. Anche in questo caso si intrecciano motivi interni all’Italia e ai suoi partiti, in particolare DC e PCI, e motivi internazionali. Per il governo italiano e De Gasperi si trattava di concludere rapidamente il trattato di pace del 10-2-1947 a Parigi, dove, nonostante fosse stata definita “cobelligerante” a fianco degli alleati, al momento della trattativa, l’Italia è di fatto considerata nazione sconfitta: oltre alle riparazioni, alla perdita delle colonie (Libia, Etiopia, etc.), di piccoli territori a favore della Francia (Briga, Tenda, Moncenisio), è costretta a cedere con grande dolore alla Jugoslavia di Tito terre italianissime come Zara, l’Istria, Venezia Giulia, già da secoli appartenenti alla Repubblica di Venezia e conquistate nel 1918 a completamento del Risorgimento. Per De Gasperi si tratta anche di accettare la situazione di fatto ridimensionando quindi la questione dei profughi friulani, per procedere sulla via del moderatismo alla ricostruzione del Paese anche grazie agli aiuti americani (piano Marshall). I partiti di sinistra, specie il PCI, erano scossi da un grande dibattito che portò a lacerazioni interne o a scissioni (Saragat e il PSDI) sulla priorità della fedeltà a Mosca (Togliatti) per cui si dovevano giustificare anche gli eccidi, o la via nazionale al comunismo, tesi che nel 1948 verrà fatta propria da Tito con la conseguente espulsione dal sistema comunistico internazionale. Più tardi anche Togliatti aderirà a tal teoria. Infine a livello internazionale con l’inizio della guerra fredda e la divisione del mondo in due blocchi Est – Ovest gli stessi USA ebbero interesse a minimizzare l’operato di Tito nell’Italia nord orientale quale baluardo contro l’espansione del comunismo sovietico anche in paesi come Italia e Austria, dopo la sua affermazione nell’Est europeo.

Trieste, territorio libero sotto gli alleati (zona A), tornerà “italiana” solo nel 1954. Ma è con il trattato di Osimo del 1975 che si chiude definitivamente ogni controversia di frontiera tra Italia e Jugoslavia. Per capire il senso del trattato con il quale il Paese rinunciava agli ultimi interessi territoriali (Zona B, il resto della penisola istriana) lasciati in sospeso precedentemente, occorre ricordare che esso venne stipulato durante una stasi della guerra fredda, quando cioè i due blocchi Est-Ovest cercarono, con gli accordi Helsinki, di fissare nuove regole per una convivenza meno ostile.

Ora poiché da qualche tempo si parla di “storia condivisa” su eventi più o meno lontani compresa la stessa questione dell’unità d’Italia e relative celebrazioni, il ricordo, la memoria sono via via sempre più necessarie per la comprensione dei fatti e per la crescita politica, culturale, morale, in una parola nazionale del Paese. Si tratta, cioè, come ha affermato il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano in un discorso del 2008, di far prevalere il “dialogo sul pregiudizio“, “le ragioni dell’unità su quelle della discordia” e di riappacificare le due sponde dell’Adriatico dopo “aver appreso insieme la lezione della storia“.

Laura Pierini

Le alluvioni di Senigallia: la ricerca storica “Misa Amaro” è fruibile on line

Il fiume Misa a Senigallia, alto per le piogge e il maltempo
Il fiume Misa a Senigallia, alto per le piogge e il maltempo

Si intitola “Misa amaro” l’ultima acquisizione della sezione Libri digitali della Biblioteca Comunale Antonelliana di Senigallia. Si tratta di un’importante ricerca storica sulle “Piogge intense, inondazioni e alluvioni storiche a Senigallia dal sec. XV al sec. XX” a cura di Giuseppe Santoni e Rossano Morici. Nei due volumi in cui è suddiviso il lavoro (Parte Prima dal sec. XV al sec. XIX; Parte Seconda sec. XX) sono raccolte le schede di ben 43 eventi documentati, di cui 15 alluvioni gravissime (1472, 1476, 1611, 1765, 1827, 1855, 1856, 1884, 1896, 1897 – con due alluvioni nello stesso mese- 1940, 1955 – con due alluvioni a distanza di un mese una dall’altra – 1976) e di un’altra decina di eventi in cui, per fortuna, le grandi perturbazioni meteorologiche non si sono trasformate in vere e proprie inondazioni. 

Le fiumane sono avvenute in tutte le stagioni e i mesi dell’anno, soprattutto durante l’autunno e durante il mese di luglio, in coincidenza con il mare grosso da levante, da ostro, da scirocco, da libeccio e da bora e talvolta hanno compromesso il sereno svolgimento della famosa Fiera franca della Maddalena. Nel leggere il libro si scopriranno alcuni dei motivi che rendono non solo la città, ma l’intero territorio comunale e quello dei Comuni confinanti zone a rischio idrogeologico. Gli autori concludono con un monito: il Misa, le cui acque scorrono così pigre e deboli che non riescono a trasportare a valle i detriti e interrano l’alveo, talvolta da piccolo torrente “sonnolento, per più mesi all’anno quasi completamente asciutto” può risvegliarsi all’improvviso e trasformarsi in un “torrentaccio” violento che causa gravi amarezze alla nostra città. 

Giuseppe Santoni e Rossano Morici lo considerano, sebbene amaro,  un regalo per i senigalliesi perché finora da molti si lamentava la mancanza di studi storici, dal momento che una seria ricerca in proposito non è stata mai finanziata. Pertanto il contributo dei due studiosi cerca di rispondere volontariamente e gratuitamente a questa esigenza e di venire incontro alla curiosità dei cittadini che vogliono sapere molte più cose di quante finora erano note sulle alluvioni storiche della città. 

Nuovi percorsi di arte e storia a palazzo Mastai – Casa Museo Pio IX

Senigallia: veduta di palazzo Mastai - Casa Museo Pio IX
Senigallia: veduta di palazzo Mastai – Casa Museo Pio IX

Palazzo Mastai Casa Museo Pio IX apre le porte alla cultura con nuovi percorsi di arte e storia, proponendo due incontri pubblici per conoscere ed ammirare da vicino alcune delle opere più preziose e meno conosciute di questa casa museo inaugurata nel 1892.

Primo appuntamento, aperto a tutti, a partecipazione gratuita, venerdì 12 novembre con un evento incentrato sui significati simbolici dei colori nel corso dei secoli. Si prosegue poi il venerdì successivo 19 novembre con un incontro sul tema delle opere conservate a Palazzo ed ispirate a celebri capolavori dell’arte italiana.

Entrambe le serate avranno inizio alle 17.30 e prevedono la visita guidata gratuita all’interno delle sale del piano nobile, a cura della Storica dell’arte Lorenza Zampa. Non è necessaria alcuna prenotazione, è sufficiente presentarsi al museo muniti di green pass

Gli eventi sono organizzati dalla Diocesi di Senigallia grazie agli operatori museali di Palazzo Mastai, per un ciclo di incontri che vuole soffermarsi su nuovi aspetti del sorprendente patrimonio storico-artistico locale.

Palazzo Mastai – Casa Museo Pio IX aderisce all’Associazione Musei Ecclesiastici Italiani.

Info: www.diocesisenigallia.itwww.pionono.it – tel. 071.60649.

Il conto è ancora aperto: le parole che fanno storia

foto archivio ‘Bassanonet’

Ora il Ministero dell’Istruzione vuole vederci chiaro ed è l’Ufficio stampa del palazzo di Viale Trastevere a spedire, nella tarda serata di venerdì, un comunicato in cui “rende noto di aver chiesto all’Ufficio scolastico regionale per le Marche una relazione in merito al messaggio inviato alle studentesse e agli studenti della Regione in occasione della Giornata dell’Unità Nazionale e delle Forze Armate del 4 novembre. Messaggio che ha suscitato forti polemiche da parte della comunità scolastica e non solo. Il Ministero ha chiesto spiegazioni sul contenuto e sulle finalità della nota in ragione “dei principi democratici che sorreggono l’attività e le finalità del sistema nazionale di istruzione e formazione”. Ennesima puntata del dibattito – tutto  marchigiano – sollecitato dall’imbarazzante lettera destinata agli studenti delle scuole superiori della nostra regione, inviata dal direttore dell’Ufficio scolastico regionale, dott. Filisetti, in occasione della ricorrenza del 4 novembre che ricorda la vittoria dell’esercito italiano nella Prima guerra mondiale e festa nazionale delle Forze armate. Il dirigente ha anche citato alcune parole del filosofo Giovanni Gentile, ministro dell’Istruzione durante il Fascismo, contenute nel suo “Sommario della pedagogia” incentrando il pensiero su patriottismo, coraggio e sacrificio.

Fine agosto di un’estate strana, questa del 2020. La Rotonda a mare di Senigallia affollata, nei modi e nei numeri consentiti dalla sicurezza anti pandemia, per ascoltare Francesco Filippi, brillante storico che in un Paese scordereccio come il nostro, dati alla mano e impeccabile metodologia di ricerca, solleva più di un polverone ogni volta che esce un suo libro. Ha la fissa, più che mai meritoria, di spiegare le vicende storiche italiane studiandole anche dalla parte dell’opinione pubblica, essendo lui uno ‘storico della mentalità’ e indaga la storia chiedendosi cosa ha lasciato nel sentire comune e come incide anche oggi nella narrazione collettiva.
Dopo Mussolini ha fatto anche cose buone. Le idiozie che continuano a circolare sul fascismo (50 mila copie vendute), è tornato in libreria con un nuovo saggio (Bollati Boringhieri), dal titolo Ma perché siamo ancora fascisti? Un conto rimasto aperto. In questa spietata radiografia del Paese abitato da tanta “brava gente”, Filippi prende in esame le dinamiche politiche del dopoguerra e la mancata defascistizzazione delle istituzioni nonché il tentativo mancato di contrastare il neofascismo attraverso la legislazione: dalla XII disposizione della Costituzione fino alle leggi Scelba (1952) e Mancino (1993). Il saggio prende in esame anche i racconti culturali che si sono sviluppati nel periodo repubblicano: dalle interpretazioni dei filosofi Croce, Gobetti, Gramsci e Salvemini; al dibattito storiografico da Battaglia e De Felice fino alla produzione culturale, cinematografica, musicale e letteraria di massa che in molti casi, come dice Filippi, ha sostanzialmente assolto gli italiani dalle proprie responsabilità.

Filippi, nella Rotonda a mare inaugurata in pompa magna proprio durante il Ventennio, simile ad un cella frigorifera per eccesso di aria condizionata, è partito in quarta: «Siamo ancora fascisti perché, drammaticamente, non ci è stato insegnato e non siamo mai stati costretti ad essere altro. Il fascismo è stato un fenomeno complesso, che ha occupato 20 anni cruciali della vita di questo Paese, a cui non ha fatto seguito una profonda e strutturata analisi riguardo l’impatto di lungo periodo che ebbe, sulla nostra società, il totalitarismo italiano. Nella costruzione dell’identità italiana, intesa come insieme di caratteristiche comuni attribuibili agli abitanti di questo paese, molte delle caratteristiche che ci riconosciamo come “tipicamente nostre” sono frutto di un racconto pubblico che fu il fascismo, per primo, a forgiare».

E chi sono i fascisti oggi? «Si possono individuare tre categorie: i nostalgici, che vanno in pellegrinaggio sulla tomba di Mussolini e fanno il saluto romano all’anniversario della marcia su Roma. Poi ci sono i “moderni”, di tendenze politiche autoritarie e in generale antidemocratiche, che mettono il fascismo storico nel proprio retaggio culturale e si richiamano ad esso come un ispiratore. Questi due gruppi, messi insieme, sono una parte davvero minima della società del nostro paese. Infine c’è la categoria degli inconsapevoli: quelli che ritengono di poter utilizzare a piacimento le categorie del fascismo senza preoccuparsi dei danni alla memoria storica del Paese che questo comportamento fa nascere. Sono quelli che scherzano sul duce e ne minimizzano la pericolosità storica, dicendo che non serve più a nulla, oggi, parlare di fascismo o antifascismo. Di solito sono anche quelli che non hanno particolare attenzione al vivere comune e che più in generale guardano con sfiducia alle istituzioni democratiche. Sono quelli che al bar, o anche in parlamento, tra il serio e il faceto invocano “l’uomo forte” per risolvere i problemi del paese. Questa ultima categoria è, ahinoi, molto, molto più numerosa».

Forse sono anche quelli che non sanno raccontare anzitutto a se stessi e, peggio ancora, alle giovani generazioni, che è tempo di archiviare sul serio questa anacronistica retorica bellica. E che si rende omaggio ai milioni di giovani di allora, costretti ad una crudele morte non scelta, dicendo e vivendo parole altre. Quelle che sanno di convivenze possibili e percorsi di giustizia, per tutti.

Laura Mandolini