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Tag: Terra Santa

Gaza City brucia. La testimonianza di Gabriel Romanelli, parroco della comunità cattolica locale

La situazione continua a essere molto grave in tutta la Striscia, particolarmente nella città di Gaza”. Lo racconta in un video destinato ai giornali diocesani padre Gabriel Romanelli, parroco della comunità cattolica locale, dopo he Israele ha lanciato stanotte un’operazione militare estesa su Gaza City, con raid aerei intensi, focalizzati sulle infrastrutture di Hamas, accompagnati da un avvertimento perché i residenti lascino la zona e si dirigano verso il sud della Striscia. “Ringraziando Dio stiamo bene”, rassicura all’inizio del messaggio, ma poi descrive un contesto di crescente dolore: “Ci sono operazioni militari molto forti nella zona ovest e nord-ovest della città. Si sentono tanti colpi, soprattutto di notte”. La parrocchia si trova nella zona est, dove la situazione sembra al momento meno critica, ma “in tutta la città si avverte tristezza, angoscia”. Molti quartieri sono stati evacuati, altri resistono: “La maggior parte della popolazione non vuole andarsene, perché hanno già vissuto l’esperienza dello sfollamento. All’inizio della guerra sono partiti in 700.000, ma si continua a bombardare ovunque: nord, sud, centro. Si distruggono case, tende, si perdono vite”. La comunità cristiana rimane compatta attorno alla parrocchia: “Siamo circa 450 persone. Cerchiamo di fare del bene, di servire molto semplicemente i nostri anziani, i bambini, le famiglie, gli ammalati”. Infine, padre Romanelli si rivolge a chi lo ascolta: “Vi ringraziamo per la vostra preoccupazione. Pregate ancora per la pace, affinché il Signore conceda a questa parte della Terra Santa – e a tutta la Terra Santa – un periodo senza guerra. Come inizio di un periodo di pace”.

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Striscia di Gaza: colpita la parrocchia latina, due morti e 11 feriti. Il cordoglio del Papa

“Questa mattina, intorno alle 10.10, la parrocchia latina della Sacra Famiglia, l’unica cattolica di Gaza, che ospita al suo interno circa 500 sfollati cristiani che hanno perso tutto a causa della guerra, è stata colpita da un tank israeliano causando due morti, un uomo e una donna, 11 feriti. Panico tra i rifugiati per l’esplosione avvenuta vicino alla croce posta sul tetto della chiesa, con schegge e detriti caduti sul cortile”. A raccontare le fasi del bombardamento che ha colpito la parrocchia cattolica di Gaza è Anton Asfar, direttore di Caritas Jerusalem. Poco prima a dare la notizia al Sir era stato lo stesso patriarca latino di Gerusalemme, card, Pierbattista Pizzaballa, con una dichiarazione stringata: “Questa mattina è stata colpita la parrocchia latina della sacra Famiglia di Gaza. Ci sono 2 morti e 6 feriti, anche gravi. Lievemente ferito il parroco, padre Gabriel Romanelli, curato in ospedale”. Dichiarazione aggiornata con il passare delle ore. La parrocchia attualmente ospita circa 500 sfollati cristiani. I morti accertati sono Saad Salameh, di anni 60 e Fumayya Ayyad, 84 anni. Il primo era il custode della parrocchia e al momento dell’attacco si trovava nel cortile, la seconda vittima, era una donna che si trovava nella tenda Caritas adibita al supporto psicosociale.

Il racconto dell’attacco. “Stiamo seguendo gli sviluppi minuto per minuto – spiegano dalla Caritas -. Le persone all’interno del compound parrocchiale sono terrorizzate e sono rintanate nelle loro camere, ricavate da aule scolastiche. Nel momento dello scoppio, alcune persone si trovavano all’esterno dell’edificio principale, tra cui due donne anziane sedute all’interno della nostra tenda di supporto psicosociale Caritas. Entrambe sono rimaste gravemente ferite e sono state trasportate in ambulanza all’ospedale Al-Ahli. Altri tre giovani – continua Asfar – che si trovavano all’ingresso della chiesa sono rimasti gravemente feriti e trasportati in ospedale con mezzi privati a causa dell’urgenza della situazione”.

Altri feriti da vetri e schegge sono stati curati con punti di sutura. La scorsa settimana, ricorda il direttore della Caritas, “padre Romanelli aveva esortato la gente a rimanere nelle proprie stanze, poiché gli intensi bombardamenti e le operazioni militari nelle vicinanze avevano reso la zona sempre più pericolosa. Ieri, la minaccia è diventata particolarmente grave a causa della presenza di carri armati israeliani vicino al complesso della chiesa e dei continui attacchi nelle immediate vicinanze”. Significative le parole di un operatore di Caritas Jerusalem riportate da Asfar: “Se padre Gabriel non ci avesse chiesto di rimanere in casa, oggi ci sarebbe stato un massacro di almeno 50, 60 morti”. Da Caritas Jerusalem l’impegno a restare in contatto con il proprio team a Gaza per avere aggiornamenti sulle condizioni dei feriti. Infine, l’appello: “invitiamo tutte le parti a rispettare e proteggere i luoghi di culto e gli alloggi umanitari. Colpire o mettere in pericolo i civili in cerca di rifugio costituisce una grave violazione del diritto internazionale umanitario e una diretta violazione della dignità umana”.

Il messaggio del Papa. Papa Leone XIV ha inviato un telegramma di cordoglio, a firma del card. Pietro Parolin, segretario di Stato, al parroco padre Gabriel Romanelli e all’intera comunità parrocchiale dove si dice “profondamente rattristato nell’apprendere della perdita di vite umane e dei feriti causati dall’attacco militare alla chiesa cattolica della Sacra Famiglia a Gaza”. Assicurando “la sua vicinanza spirituale” e preghiera per i defunti e “per la guarigione dei feriti”, il Pontefice rinnova “il suo appello per un cessate-il-fuoco immediato” ed esprime “la profonda speranza in un dialogo, una riconciliazione e una pace duratura nella regione”.

Cei e Comece. “Apprendiamo con sgomento – scrive la Presidenza della Cei – dell’inaccettabile attacco alla chiesa della Sacra Famiglia di Gaza. Esprimiamo vicinanza alla comunità della parrocchia colpita, con un particolare pensiero a coloro che soffrono e ai feriti, tra i quali padre Gabriel Romanelli”. “Nel condannare fermamente le violenze che continuano a seminare distruzione e morte tra la popolazione della Striscia, duramente provata da mesi di guerra – prosegue la nota –, rivolgiamo un appello alle parti coinvolte e alla comunità internazionale affinché tacciano le armi e si avvii un negoziato, unica strada possibile per giungere alla pace”. La Presidenza ringrazia, infine, “la Presidente dell’Unione delle Comunità ebraiche italiane, Noemi Di Segni, per il suo messaggio di solidarietà e quanti, in queste ore, stanno manifestando la loro prossimità alla Chiesa cattolica”.

Daniele Rocchi

(Photo by Jack GUEZ / AFP)

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Terra Santa: padre Ielpo nominato nuovo Custode, “servire da fratelli”

Papa Leone XIV ha confermato l’elezione di padre Francesco Ielpo, a Custode di Terra Santa e Guardiano del Monte Sion, avvenuta da parte del Ministro Generale dell’Ordine dei Frati Minori. Lo abbiamo intervistato.

Con quale spirito ha accolto la notizia della sua nomina a Custode?
Il primo grande sentimento è quello di una profonda, enorme sproporzione tra quello che mi viene chiesto dal mio Ordine e dalla Chiesa e la mia misera persona. Soltanto un pazzo potrebbe pensare di essere all’altezza di un compito così. Ma come mi ha detto il mio padre spirituale ‘è bella questa sproporzione, questo non sentirsi all’altezza perché lascia spazio all’agire di qualcun Altro, all’agire dello Spirito Santo. Quindi il lavoro più grande sarà sulla mia persona per lasciare spazio a un altro con la A maiuscola. E poi un’altra cosa…
Quale?
È evidente che oggi non è più il tempo dei leader solitari.
Un compito come questo, un servizio come questo per la Chiesa bisogna farlo da fratelli. La fraternità è un po’ la radice del nostro carisma. La fraternità è ciò di cui abbiamo bisogno, soprattutto in Terra Santa. I fratelli che camminano insieme e che testimoniano che esiste un altro modo di poter vivere, un altro modo di poter affrontare anche le difficoltà e le tensioni.
A proposito di tensioni: la sua nomina arriva in un momento segnato da gravi conflitti in tutta l’area e in Terra Santa. Con quali ‘armi’ lei e la Custodia pensate di poter fare fronte a questi tragici eventi?
Seguendo Francesco. Sicuramente c’è un grande senso di impotenza di fronte alla tragicità, alla gravità e alla drammaticità del tempo presente. Ma io credo che quello che mi viene chiesto, quello che ci viene chiesto come frati minori è proprio seguire Francesco. Francesco di Assisi nel 1219 si è recato pellegrino in Terra Santa durante un altro grande conflitto, eravamo al tempo della Crociata. Francesco non andò per risolvere i problemi perché un piccolo uomo come lui non poteva certo risolverli. Così come anch’io non ho la pretesa, anzi neanche l’idea di dover risolvere i problemi. Seguire Francesco andando disarmato e testimoniando che c’è un’altra possibilità, che c’è un’altra via.
Francesco non ebbe paura del momento tragico…
Quando Francesco andò in Terra Santa c’era un conflitto tra due eserciti che si stavano contendendo quel pezzo di terra. Francesco semplicemente ruppe tutte le barriere e passò da un campo all’altro, da uno schieramento all’altro, disarmato, desideroso soltanto di mostrare che poteva esserci un’altra via. E l’altra via è quella che ci indica la Chiesa da sempre. Prima con Papa Francesco e adesso con Papa Leone continuiamo a dire che ‘la guerra non è la soluzione dei problemi e la pace non è mai il risultato di una vittoria bellica’.
Testimoniare, restando accanto a chi soffre, non solo ai cristiani, a tutta la popolazione che c’è davvero un altro modo per vivere e per affrontare le difficoltà.
Il ministro generale dell’Ordine, padre Fusarelli nel messaggio che accompagna la sua nomina, scrive che ‘questo particolare contesto di conflitto che proprio in Terra Santa e nel Medio Oriente viola la dignità della vita umana, rende ancor più urgente e ‘martiriale’ la nostra missione in quei luoghi e ci richiama alla nostra vocazione di testimoni e operatori di riconciliazione e di pace’. Come portare avanti, allora, l’opera di Francesco?
La strada che dobbiamo perseguire è quella di continuare a servire grazie anche alle opere che da secoli i frati, con sacrificio e con spirito martiriale portano avanti; pensiamo alle scuole, all’assistenza dei più vulnerabili, al sostegno alle famiglie, alla formazione. Ma c’è anche un’altra testimonianza, che magari fa meno rumore ma che è enorme: il restare, l’esserci.
In che senso?
Le racconto un episodio. Durante gli anni di guerra in Siria, ho avuto modo diverse volte nel 2016, 2017, 2018 di andare e stare con i frati che vivevano e di incontrare anche delle famiglie. Rimasi colpito da una famiglia di giovani sposi di Aleppo che si erano innamorati sotto le bombe. Ma invece che fuggire e sposarsi altrove decisero di rimanere. E quando chiesi loro il motivo per cui erano rimasti ad Aleppo, nonostante la gravità della situazione, questi fu la loro risposta: “Abbiamo visto che i frati non sono scappati e sono rimasti. Così siamo rimasti anche noi “. Ecco, io credo che in questi 800 anni, i frati della Custodia sono stati quella presenza che è rimasta ‘sempre e comunque’. Questo è quello che forse più di ogni altra cosa, siamo chiamati a continuare a svolgere: testimoniare grande amore a questa Terra e alla sua gente.

a cura di Daniele Rocchi

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Gaza e Israele: la resa della politica, la voce della coscienza

Non è la guerra in sé a scandalizzare. Le guerre, da sempre, sono l’espressione ultima della violenza politica, della rottura del linguaggio, della fine della diplomazia. No, ciò che scandalizza davvero è il silenzio che la circonda. L’indifferenza calcolata. L’incapacità – o la rinuncia – di immaginare soluzioni. E così, mentre Gaza si sbriciola e il sud di Israele resta sotto assedio, ciò che si consuma davanti ai nostri occhi non è soltanto una crisi umanitaria senza precedenti: è il fallimento sistemico dell’ordine internazionale nato dopo il secondo dopoguerra.

A Gaza, ciò che si sta verificando va oltre ogni giustificazione politica o militare. Quartieri interi cancellati, ospedali colpiti, bambini sepolti sotto le macerie: non si tratta più di “danni collaterali”, ma di un’agonia collettiva che ha assunto i tratti di un crimine morale prima ancora che giuridico. La sproporzione dell’uso della forza è sotto gli occhi del mondo, e il numero delle vittime civili ha ormai raggiunto una dimensione intollerabile per ogni coscienza umana.

Da una parte un Israele ferito e isolato, che ha smarrito la lucidità strategica e si aggrappa a una superiorità militare che non è più sinonimo di deterrenza. Dall’altra, un mondo arabo frammentato e ambiguo, incapace di opporsi alla logica distruttiva di Hamas ma anche di offrire una prospettiva politica credibile ai palestinesi. E nel mezzo, il collasso della diplomazia occidentale, con un’America ondivaga e sempre più ripiegata su se stessa, e un’Europa afona, marginale, spettatrice di un dramma che non sa (e forse non vuole) decifrare.

Israele oggi è prigioniero della propria forza. Dopo l’attacco del 7 ottobre 2023, il più grave nella sua storia recente, il governo Netanyahu ha risposto con una violenza sproporzionata e sistematica, convinto che l’annientamento di Hamas equivalga alla restaurazione della sicurezza. Ma questa equazione, ormai, non regge più. Perché non si possono distruggere ideologie con i droni, né vincere guerre urbane con gli F-16. Nel frattempo, decine di ostaggi israeliani restano ancora nelle mani di Hamas, vittime silenziose di un cinismo che non risparmia nemmeno le vite più innocenti. La loro sorte, troppo spesso relegata ai margini del discorso pubblico, rappresenta un’altra ferita aperta in questo conflitto senza uscita. Il loro rilascio deve essere una priorità umanitaria, non un dettaglio negoziale.

La realtà è che la deterrenza israeliana si sta sgretolando proprio mentre si manifesta in tutta la sua potenza. E dietro l’apparato bellico, emerge un vuoto politico impressionante: nessuna visione per il futuro di Gaza, nessun interlocutore palestinese riconosciuto, nessuna strategia regionale. Solo una lunga, costosa e pericolosa occupazione militare, che logora il consenso interno e isola il Paese sul piano internazionale.

Sul versante palestinese, la situazione è drammaticamente compromessa. Hamas ha scelto la via del martirio ideologico, portando un’intera popolazione al suicidio politico. Il suo cinismo è pari soltanto alla sua efficacia retorica: si nutre del dolore, lo trasforma in propaganda, e costringe Israele a reagire secondo il copione più favorevole alla propria narrazione.

Ma ciò che impressiona è l’assenza totale di leadership politica alternativa. L’Autorità Nazionale Palestinese non è solo debole: è ormai delegittimata, scollegata dal territorio e incapace di parlare a nome del proprio popolo. La Palestina, più che divisa, è acefala. E in questa decapitazione istituzionale, trova spazio l’internazionalizzazione del conflitto, che diventa sempre più terreno di scontro tra potenze esterne.

L’Iran continua a recitare la parte del grande antagonista regionale, ma la sua strategia di proiezione indiretta – attraverso Hezbollah, le milizie sciite e i gruppi armati – si rivela inefficace nel contenere la crisi o nel rafforzare la causa palestinese. La logica dell’«asse della resistenza» si basa su una mitologia rivoluzionaria che non riesce più a trasformarsi in influenza reale, e anzi rischia di innescare un conflitto più ampio, che nessuno sembra davvero preparato ad affrontare.

L’attacco coordinato da Hezbollah lungo il confine nord, così come le provocazioni yemenite nel Mar Rosso, sono più strumenti di pressione simbolica che vere opzioni strategiche. Nessuno degli attori regionali vuole davvero la guerra, ma tutti sono disposti a flirtare col disastro per restare rilevanti.

Il vuoto lasciato dagli Stati Uniti è sempre più evidente. Washington alterna dichiarazioni concilianti ad appoggi militari incondizionati, incapace di distinguere tra alleanza e complicità. La Casa Bianca sembra prigioniera delle proprie contraddizioni: legata a Israele da una storia di fedeltà strategica, ma consapevole che l’attuale gestione del conflitto è un boomerang diplomatico di proporzioni globali.

L’Europa, dal canto suo, non c’è. E quando c’è, è irrilevante. I suoi leader si limitano a commentare, ad auspicare, a finanziare aiuti umanitari senza sporcarsi le mani con la politica vera. Ma la diplomazia, per essere efficace, ha bisogno di credibilità. E l’Unione Europea, oggi, non ha né l’una né l’altra.

L’unico vero attore che sembra aver intuito lo spazio lasciato libero è la Cina. Nelle ultime ore, Pechino ha rilanciato l’idea di una conferenza internazionale sul Medio Oriente, avanzando la propria candidatura a mediatore globale. Non si tratta di un gesto altruista, ma di una mossa precisa nel disegno della nuova geopolitica multipolare. Eppure, che piaccia o no, potrebbe essere proprio la Cina a riaprire lo spazio per una diplomazia inclusiva, laddove l’Occidente ha preferito il silenzio o la complicità.

In questo contesto di cinismo e disillusione, le parole della Chiesa risuonano con una forza inattesa. Papa Leone XIV, parlando con una fermezza profetica, ha denunciato “l’idolatria della forza” e ha invocato una pace giusta, non imposta ma costruita nel dialogo tra i popoli: «In un mondo diviso e ferito dall’odio e dalla guerra siamo chiamati a seminare la speranza e a costruire la pace!È sempre più preoccupante e dolorosa la situazione nella Striscia di Gaza. Rinnovo il mio appello accorato a consentire l’ingresso di dignitosi aiuti umanitari e porre fine alle ostilità, il cui prezzo straziante è pagato dai bambini, dagli anziani e dalle persone malate». Parole che non sono retorica, ma denuncia. Il Patriarca Pizzaballa, da Gerusalemme, ha chiesto di non rassegnarsi al conflitto come destino, rifiutando l’idea che la convivenza sia ormai un’utopia.

È forse proprio la Chiesa, oggi, a rappresentare uno degli ultimi spazi di mediazione autentica. Non per ambizioni politiche, ma per vocazione universale. Non per offrire soluzioni tecniche, ma per ricordare che la dignità umana – da entrambe le parti – viene prima di ogni frontiera.

Quale soluzione, davvero? Qualcuno dirà che è troppo tardi. Che l’odio ha scavato solchi troppo profondi. Ma la diplomazia nasce proprio quando tutto sembra perduto. Un primo passo è possibile: cessate il fuoco immediato, corridoi umanitari, liberazione degli ostaggi, e una roadmap internazionale che preveda la presenza di una forza di interposizione sotto egida Onu o araba. Poi, l’apertura a un nuovo dialogo israelo-palestinese, fondato non più su illusioni bilaterali, ma su un sistema multilaterale rinnovato, inclusivo anche di Cina e potenze regionali.

Non sarà facile. Ma se la politica vuole ritrovare sé stessa, dovrà passare di nuovo da Gerusalemme. Perché chi governa il destino della Terra Santa governa, in fondo, l’anima stessa del mondo.

Doriano Vincenzo De Luca

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Terrasanta, giornata di preghiera e digiuno per la pace. Card. Pizzaballa: “Qui, un odio mai visto”

Gaza (Foto N. Saleh)

Una giornata di preghiera, digiuno e penitenza è stata indetta dal patriarca latino di Gerusalemme, card. Pierbattista Pizzaballa, per lunedì 7 ottobre 2024, a un anno dall’attacco terroristico di Hamas contro Israele che ha fatto “precipitare la Terra Santa, e non solo, in un vortice di violenza e di odio mai visto e mai sperimentato prima”. In un messaggio alla diocesi patriarcale (che comprende, oltre a Israele e Palestina, Gaza inclusa, anche Cipro e la Giordania) il cardinale ricorda: “In questi dodici mesi abbiamo assistito a tragedie che per la loro intensità e per il loro impatto hanno lacerato in maniera profonda la nostra coscienza e il nostro senso di umanità. La violenza che ha causato e sta causando migliaia di vittime innocenti – si legge nel messaggio – ha trovato spazio anche nel linguaggio e nelle azioni politiche e sociali. Ha profondamente colpito il senso di comune appartenenza alla Terra Santa, alla coscienza di essere parte di un disegno della Provvidenza che ci ha voluti qui per costruire insieme il Suo Regno di pace e di giustizia, e non per farne un bacino di odio e di disprezzo, di rifiuto e annientamento reciproco”.
Il patriarca latino di Gerusalemme ribadisce la condanna, più volte espressa in questi mesi, “di questa guerra insensata e di ciò che l’ha generata”, e richiama “tutti a fermare questa deriva di violenza, e ad avere il coraggio di individuare altre vie di risoluzione del conflitto in corso, che tengano conto delle esigenze di giustizia, di dignità e di sicurezza per tutti”.

Da qui l’invito ad una giornata di preghiera, digiuno e penitenza, per il giorno 7 ottobre prossimo, “data diventata simbolica del dramma che stiamo vivendo. Il mese di ottobre è anche il mese mariano e il 7 ottobre celebriamo la memoria di Maria Regina del Rosario. Ciascuno, con il rosario o nelle forme che riterrà opportune, personalmente ma meglio ancora in comunità, trovi un momento per fermarsi e pregare, e portare al ‘Padre misericordioso e Dio di ogni consolazione’ (2 Cor 1,3), il nostro desiderio di pace e riconciliazione”. Con il messaggio, il patriarca latino, propone anche una preghiera, per invocare l’intercessione di Maria Regina del Rosario “per questa Terra amata e i suoi abitanti”.

Daniele Rocchi

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La Chiesa italiana promuove una colletta per le popolazioni colpite dalla guerra in Terra Santa

La Presidenza della Conferenza Episcopale Italiana indice per domenica 18 febbraio 2024 (I di Quaresima) una colletta nazionale, da tenersi in tutte le chiese italiane, quale segno concreto di solidarietà e partecipazione dei credenti ai bisogni, materiali e spirituali, delle popolazioni colpite dal conflitto in Terra Santa. Le offerte raccolte, da inviare a Caritas Italiana entro il 3 maggio prossimo, renderanno possibile una progettazione unitaria degli interventi anche grazie al coordinamento con la rete delle Caritas internazionali impegnate sul campo.

“Caritas Italiana – spiega il direttore, don Marco Pagniello – è in costante contatto con la Chiesa locale: dopo aver sostenuto, nella fase iniziale dell’emergenza, gli interventi di Caritas Gerusalemme, continua a seguire l’evolversi della situazione, accompagnando le Chiese locali nell’organizzazione delle diverse iniziative per far fronte ai bisogni dei più poveri e favorire un clima di pace e riconciliazione”. La colletta del 18 febbraio rappresenta, inoltre, una preziosa occasione di sensibilizzazione e animazione delle comunità parrocchiali italiane.

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