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La voce di Layla, attivista palestinese che sogna insieme a tanti israeliani di vivere in pace

L’oratorio della parrocchia di San Michele al fiume, frazione mondaviese, appena al di là del Cesano, in una domenica di fine agosto dà voce ad un’altra voce. Quella di Layla al-Sheikh, quarantacinquenne palestinese. L’11 aprile 2002, Qusay, figlio di Layla di appena otto mesi, ha avuto un’infezione respiratoria dopo aver inalato gas lacrimogeni scagliati durante un’incursione israeliana nel suo villaggio alle porte di Betlemme, Cisgiordania. I genitori hanno cercato di portarlo in ospedale, situato ad appena venti minuti di distanza dalla loro casa. Ci hanno messo quattro ore a causa dei militari che volontariamente li hanno trattenuti ai checkpoint. Troppi per Qusay che si è spento 48 ore dopo.

Grazie ad un’iniziativa del vivace Gruppo ‘Fuoritempo’ la sua testimonianza è arrivata fino a noi: “Per anni ho provato solo una furia incontenibile. Ho perso la fede in Dio, litigavo ogni giorno con mio marito. Davo la colpa a lui per quanto era accaduto, agli israeliani, a me stessa. Ci ho messo tanto per comprendere che quella tragedia era accaduta per una ragione anche se non sapevo quale. L’ho capito quando ho incontrato i Parents circle*. Era il settembre del 2016. Sono andata a una loro conferenza a Betlemme grazie all’insistenza di un’amica, mi ha tormentata con i suoi inviti a conoscere questa associazione. Ho accettato solo per farla smettere, non ne potevo più della sua insistenza, ma non ero per niente convinta. Quando, però, ho sentito i genitori israeliani e palestinesi parlare del proprio dolore, per la prima volta dalla morte di mio figlio, ho sentito che non ero sola. Non li conoscevo, non sapevo niente di loro. Ma li sentivo vicini, inclusi gli israeliani che in teoria erano sempre e comunque “nemici”. Non mi ero mai imbattuta in un ebreo che non fosse un soldato o un colono. Invece di fronte a me avevo madri e padri che condividevano con altri madri e padri palestinesi i propri sentimenti, la propria dolorosa solitudine. Addirittura riuscivano a sorridere insieme, a scambiarsi idee, desideri, abbracci. Sentimenti così simili ai miei… Le loro parole mi svelavano degli aspetti della mia vita che non avevo mai considerato. In quell’istante ho capito l’assurdità di questo conflitto. E ho deciso di combatterlo. Penso che sia sufficiente un momento per cambiare un’esistenza”. Ora Layla gira il mondo per portare queste voci di speranza e di pace, sapendo che è tutto tanto più complicato ma che questa è l’unica strada possibile e necessaria per trovare pace.

Prima del famigerato 7 ottobre di due anni fa erano circa 600 le famiglie associate a Parent circle, oggi sono più di 800. Solo tre le famiglie hanno lasciato l’organizzazione dopo il massacro perpetrato da Hamas e l’inferno che ne è seguito nella Striscia di Gaza scatenato dall’esercito israeliano. Ascoltare Layla è un’immersione rigenerante nella umanità più bella. C’è da rimanere stupiti per il coraggio e la creatività che la sua associazione mette in moto, anche oggi, nel promuovere attività di diverso tipo per donne, giovani, attivisti: “Tanti progetti sono stati sospesi, come è facile immaginare, ma i nostri incontri continuano ed in questo ci viene in aiuto la tecnologia. Le comunicazioni sono difficilissime e allora ci incontriamo attraverso le piattaforme digitali”. Corsi di sartoria, pasticceria, addobbi floreali (ironicamente hanno chiamato questi percorsi ‘wedding planner’, vista l’attinenza con le attività di organizzazione di matrimoni…). “Abbiamo un’attenzione particolare per i giovani, ai quali proponiamo dei campiscuola in cui imparano a conoscersi, riflettere e divertirsi, ad incontrarsi quali esseri umani. Non è possibile realizzare queste settimane nei nostri territori e quest’anno ci siamo spostati a Cipro. Ragazzi e ragazze che vivono nella stessa terra, costretti ad emigrare in un’isola per l’impossibilità di vivere serenamente nel proprio ambiente!”. Significativo il nome di un altro progetto, “Ascoltiamo il cuore”, che coinvolge giovani universitari ai quasi vengono proposte attività che aiutano a mettersi nei panni degli altri: “Il primo muro da abbattere è l’incapacità di vedere nell’altro, nell’altra un essere umano. De – umanizzare le persone è la premessa che rende possibile ogni violenza, sopruso, disumanità. A chiunque abbia perso qualcuno il 7 ottobre, vorrei dire: mi dispiace, mi dispiace davvero per chi ora è in lutto, sia israeliano o palestinese. Tutti, io per prima, abbiamo il dovere di fare qualcosa per fermare questa barbarie. Non possiamo stare a guardare. Ogni essere umano è così prezioso. Come ci permettiamo di sacrificarlo? E per che cosa poi?”.

Laura Mandolini

* L’associazione è costituita da un gruppo di genitori che hanno perso i figli nella guerra fra israeliani e palestinesi e che ora desiderano portare la pace fra i due popoli. Obiettivo dell’associazione è impegnarsi per giungere ad un accordo fra i due popoli. Parent’s Circle è nata nel 1995, per iniziativa di YitzhaK Frenkental il cui figlio era stato rapito e ucciso da affiliati ad Hamas.

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