Lo striscione sfilacciato

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La facciata del Palazzo municipale di Senigallia

In principio era uno striscione appeso. Quello che ha colorato di giallo le pareti di tanti edifici pubblici per chiedere verità sulla drammatica morte del giovane ricercatore italiano Giulio Regeni. Era un uno studente di dottorato presso l’Università di Cambridge, nel Regno Unito. Stava conducendo una ricerca sui sindacati indipendenti in Egitto nel periodo successivo al 2011, quando finì il governo di Hosni Mubarak. Era al Cairo per svolgere la sua ricerca quando, il 25 gennaio 2016 è scomparso. Il suo corpo, con evidenti segni di tortura, è stato ritrovato nove giorni dopo, il 3 febbraio, in un fosso ai bordi dell’autostrada Cairo-Alessandria. Da allora si sono alternate manifestazioni pubbliche per sapere come è andata per davvero, testimonianze dei genitori del ricercatore, indagini italiane ed egiziane, crisi diplomatiche tra i due paesi, commissioni di inchiesta, prese di posizione, dibattiti processuali. E gli striscioni gialli appesi, ispirati da Amnesty international, a ricordare anche plasticamente il dovere della giustizia.

In diversi comuni, però, l’alternanza del colore del potere locale ha reso il giallo della mobilitazione qualcosa, a seconda dei casi, di superfluo per raggiungere la verità, o peggio di ideologico e sconveniente. E’ successo a Trieste, nel palazzo della Regione in Piazza Unità d’Italia, lo scorso anno, quando il governatore regionale Fedriga dichiarò: “Non lo rimetteremo”. A Ferrara, invece, la storia dello striscione si è arricchita di suspance e di più puntate (tentativo di incendiarlo, coperto da una bandiera della Lega, collocazione su un’impalcatura…). E ancora, Treviso, dove lo striscione è stato rimosso dalla facciata del palazzo che guarda piazza dei Signori, su decisione della giunta leghista, sostenendo che “fosse stato esposto già per un bel po’ di tempo”. Stessa storia a Sassuolo, Cassina de’ Pecchi (Brianza), Alba (Cuneo)… Ora è la volta di Senigallia.

“Un indizio è un indizio, due indizi sono una coincidenza, ma tre indizi fanno una prova”: uno degli aforismi più conosciuti della giallista – di nuovo il giallo! – Agatha Christie induce a pensare che non si tratta di semplici concomitanze, ma di opzioni politiche precise, più che mai legittime per chi ha avuto il mandato a governare. Succede spesso in Italia, di tinteggiare politicamente mobilitazioni, vicende, persone . C’è stato un tempo, oggi ormai non scende in piazza più nessuno e non soltanto per le ristrettezze della pandemia, in cui si manifestava contro alcune guerre e non per altre, per denunciare la violenza di alcuni regimi, mentre altri godevano di un inspiegabile trattamento di favore. Succedeva anche che lo stesso conflitto fosse raccontato e quindi più o meno osteggiato, in modo diametralmente opposto. Eroi ed eroine tirati per la giacchetta dall’una o dall’altra parte, divenuti senza volerlo – tanto più quando uccisi da satrapi senza scrupoli – simboli di un orizzonte politico ben più ristretto degli ideali che hanno causato il loro sacrificio.

Nessuno è così ingenuo da pensare che basti un rettangolo di stoffa, più o meno sgualcito, per ristabilire verità sottratte anzitutto ai familiari, alle società, ad un’idea di rapporti tra stati e popoli fondati sul rispetto dei diritti umani. Ognuno potrebbe appendere il ‘suo’ striscione e forse non ci sarebbe più centimetro quadrato libero nella bella facciata del nostro palazzo comunale, tanti sono i casi di sopraffazione ( noti o sconosciuti) che continuano ad insanguinare vite, progetti, idee di giustizia.
Lo striscione, a nostro parere, doveva rimanere e non solo per la tragica vicenda del ricercatore friulano. Per ricordarci che esiste un comune denominatore di convivenze che deve e può starci a cuore. Per non ricadere nello sterile gioco delle parti che, anche quando animato dalle più belle intenzioni, non aggiunge nulla in comprensione, condivisione e solidarietà reale. Sul volto di Regeni, in filigrana, avremmo potuto scorgere centinaia di volti, sparsi nel mondo intero, violati nella loro dignità profonda.

Siamo più di un’appartenenza politica, siamo famiglia umana. Per questo possiamo continuare a sperare in un mondo più giusto. Ovunque e per tutti.

Laura Mandolini

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