La pastorale della salute: esserci al fianco di chi soffre e non solo – INTERVISTA AUDIO

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Cos’è la pastorale della salute, di cosa si occupa, come si parla e ci si relaziona con una persona malata, quali i progetti futuri da portare avanti. Ma soprattutto perché la Diocesi di Senigallia ha dato vita a un organismo che si occupa delle persone più fragili a livello sanitario: sono le domande che abbiamo rivolto al direttore della pastorale stessa, il dottor Giuseppe Olivetti. L’intervista è in onda oggi, mercoledì 5 giugno, alle ore 13:10 e alle ore 20; domani, 6 giugno, agli stessi orari; e domenica 9 a partire dalle ore 17. Chi vuole potrà proseguire nella lettura di questo articolo oppure ascoltarsi l’intervista cliccando sul tasto play del lettore multimediale.

Chi è Giuseppe Olivetti e come ‘è arrivato alla guida della pastorale della salute?
Sono medico e da 30 anni mi occupo delle persone nelle rsa, legate a una estrema fragilità. Cerchiamo di accompagnare persone e famiglie degli ospiti. Qualche anno fa il vescovo mi ha chiesto di occuparmi direttamente delle questioni della salute all’interno della diocesi e ho cercato di fare sintesi delle varie realtà come l’Avulss o l’Unitalsi in modo da fare un lavoro comune, seppure ognuno con le proprie sensibilità e azioni.

Cosa fa la pastorale della salute?
Non si lega solo al paziente, al malato, a chi soffre, ma ci occupiamo delle persone che hanno difficoltà e anche dei loro familiari: senza fare discorsi filosofici, anche se ci sono temi molto importanti come l’eutanasia, ma ci interessa di più essere una presenza attiva all’interno di ospedali e altre strutture socio sanitarie. Ed è la cosa più difficile: se parlarne non è semplice, certo stare di fianco a una persona malata è più complesso. E non si impara se non con l’esperienza diretta. 

Materialmente fate assistenza…
Sì, però lo facciamo con una specificità: ci poniamo sempre la domanda “cosa farebbe Cristo al posto nostro di fianco a quella persona” e cerchiamo di dare anche solo con uno sguardo, una gentilezza o un sorriso un po’ di sollievo. A noi non costa nulla ma per qualcuno può essere un raggio di sole.

Vi occupate anche degli stessi operatori che sono al fianco dei malati?
Sì, anche se forse è venuto un pochino meno questo accompagnamento. Le difficoltà ci sono anche per coloro che si prendono cura dei malati. A volte può capitare di non voler entrare in una stanza perché sappiamo che possiamo fare poco per quella persona magari perché la situazione è molto complicata, ma ci dobbiamo rendere conto che siamo noi che non riusciamo a reggere a volte queste situazioni che spesso sono croniche e durano anni. Anche perché qualche vissuto, qualche storia che c’è dietro a un paziente malato, ci parla di un abbandono: una volta le persone anziane per cui non si poteva fare più nulla si portavano a casa, oggi è difficilissimo e ci sono problematiche oggettive. Ma la cura a domicilio è ormai un’eccezione.

Ma cosa è più difficile da affrontare? La malattia, la fine o la storia e le emozioni di una persona?
Beh, la paura è verso il limite, verso la morte, ma la differenza tra chi crede e chi no è che non dobbiamo scacciare la morte perché farsi carico della sofferenza, starci vicino suscita anche le riflessioni sulla vita. L’atteggiamento normalmente è quello di non pensarci finché non capita qualcosa, ma come diceva Sant’Agostino la salute è una palestra per i giorni difficili. Alla fine facciamo quel che si può.

Quanti siete e dove operate?
Non sono solo. Tra i più attivi c’è l’Unitalsi, periodicamente ci si vede e organizziamo iniziative per la giornata del malato dell’11 febbraio. Facciamo raccolte di offerte per il progetto ospedali aperti ad Aleppo, in Siria, per aiutare le persone che sono ancora più in difficoltà di noi. E ce ne sono tante nel mondo. Ma anche noi dobbiamo rifocillarsi a livello spirituale, senza dover operare in un luogo ben preciso: l’importante è essere una presenza significativa.

Un’opera di evangelizzazione o di assistenza?
L’evangelizzazione siamo noi, è la persona che rende presente Cristo, non è un discorso. Un aiuto reciproco a essere più sensibili verso certi temi, non facciamo solo compagnia, quello lo possono fare tutti. Noi diamo il messaggio del passaggio, della resurrezione di Cristo. E l’ultima parola non è la nostra ma quell’azzurro nel cielo che le persone vedono.

Come affrontate temi come il fine vita, l’eutanasia, il testamento biologico?
Il punto è che in alcuni casi non ci sono alternative: o ci sono le cure o ci si deve arrangiare. Quindi la scelta delle persone è legata più che altro alla possibilità, alla prospettiva di una persona. Le DAT, le dichiarazioni anticipate di trattamento, cioè le disposizioni sul fine vita, possono essere cambiate in ogni momento. Ma spesso si vive la sofferenza nella solitudine e lì prospettiva non c’è. Uccide più la solitudine che la malattia.

Quali sono i rischi legati all’eutanasia?
Beh, in alcuni paesi come il Belgio basta che qualcuno si senta fortemente depresso per poter richiedere il suicidio assistito. Non sono malattie inguaribili quelle, e il rischio di passare a trattare come tali anche dei disagi è alto. E’ molto preoccupante e forse non si finisce nemmeno qui. Come prima, forse è più la solitudine a creare problemi che il disturbo stesso.

Come si comporta il credente di fronte a certe scelte?
Mettendosi a fianco e facendo compagnia a quella persone che ha intrapreso un certo percorso: la posizione della Chiesa non è dogmatica, chi sceglie il suicidio assistito non deve essere abbandonato.

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