Giornata Alzheimer: Paola Tonini Bossi racconta la nascita del centro ‘Il Granaio’ di Senigallia

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Quelle mani ferme, immobili, non le davano tregua. Nel guardarle si chiedeva ‘chissà quante cose avranno fatto, quante tagliatelle tirate ad arte, quante carezze, quanti occupazioni, quante cure per figli e nipoti, quanto lavoro nella terra’. Dovevano muoversi di nuovo, ridestare quella vita messa in pausa.
Paola Tonini Bossi, prima coordinatrice del Centro diurno per malati di Alzheimer di Senigallia, racconta i passi mossi verso una cura più adeguata e amorevole  delle persone con demenza. Quegli stessi passi che hanno portato nel 2003 all’apertura del ‘Granaio’, festeggiata lo scorso giugno alla presenza di tanti cittadini, familiari ed istituzioni.

In occasione della Giornata mondiale dedicata all’Alzheimer, ogni 21 settembre, dare voce a chi ha dedicato tempo, cuore e testa a queste persone oltre che essere doveroso, è prezioso, necessario. Fare memoria, giusto per rimanere in tema, di chi ha fatto la differenza per la nostra comunità fa bene a tutti.

“Lavoravo a Corinaldo alla Casa protetta – ci dice Paola Tonini Bossi – struttura che ospita persone con gravi disabilità. Mi venne fatta la proposta di promuovere all’Opera Pia ‘Mastai – Ferretti’ un progetto sperimentale con persone affette da demenza. Con trepidazione, ma con forte convinzione, accettai e mi resi subito conto che molto spesso nell’organizzare i servizi le regole sovrastavano le esigenze più vere degli ospiti, non era così diffusa la conoscenza di approcci diversi nella cura”.

Prende atto della realtà ma continua a sognare qualcosa di diverso, stimolata da quelle mani che avrebbero potuto nuovamente ritrovare linfa. Ritagli di giornale, qualche gomitolo, altri piccoli oggetti a prima vista insignificanti avrebbero fatto da volano per abitare diversamente quel tempo. Insieme, in una stanzetta ed attorno ad un tavolo, ci si riscopriva capaci, mentre si godeva della compagnia gli uni degli altri: “Caterina ha sempre amato la musica – ricorda con emozione – ed è bastato metterle una cuffia collegata alla radio per riaccendere in lei questa sua passione: sulla sua sedia a rotelle sembrava una regina!”.

Pian piano quel laboratorio si anima di abilità rimesse in circolo. Sembravano cose da niente, piccole azioni, ma quei volti risplendevano ogni giorno di più di una luce diversa. “Erano persone che da anni avevano smesso di fare cose, di mettersi in gioco. Sapevo di una signora bravissima all’uncinetto, le proposi di riprenderlo in mano chiedendole di realizzare un rettangolo. È venuto fuori un triangolo, sembrava una vela. Le dissi convinta che era proprio quello che volevo (ovviamente non era così), e quel piccolo, immenso lavoro è subito diventato parte di un quadretto con una barca che solcava il mare”. Dignità e autostima hanno ricominciato a prendere coraggiosamente il largo, fuori dalle secche conosciute.

Paola non ammette smentite, nemmeno quelle all’apparenza autorevoli, perché lo ha sperimentato per anni. Non è vero che l’Alzheimer toglie tutto: “Quella parte di cervello in cui risiede l’affettività non è toccata dal morbo. E se anche una persona non ricorda chi sono, chi siamo, ma riesce ancora ad amarci, ad emozionarsi nell’essere insieme, tutto questo ha un valore inestimabile, va preservato”. Anche il terribile mostro, di fronte all’amore, si arrende e ha le armi spuntate.

Gli esperimenti all’Opera Pia funzionavano, la stanzetta diventava un punto di riferimento per tanti. Le persone erano serene, il piccolo gruppo aumentava di numero, l’intera struttura beneficiava di questo approccio, mentre si cominciava ad avvertire l’esigenza di dare risposte più adeguate alle demenze, sempre più diffuse e presenti nella struttura.

Nel 2003, in un percorso che ha del miracoloso per aver messo attorno allo stesso tavolo ente gestore, istituzioni sanitarie, comune, privato sociale e volontariato, viene aperto il ‘Granaio’, nome scelto dalla stessa Paola perché pare che proprio in quelle stanze ci fosse un deposito di grano, ma molto di più per la capacità di quei piccoli semi di donare vita. In molti pensarono a lei per guidare questo inedito esperimento socio – sanitario, aveva i numeri per farlo. E lei non si è tirata indietro, ha accolto la sfida: “L’esperienza della Casa protetta mi aveva aiutata molto, non avevo mai avuto incarichi di responsabilità di questo tipo, ma sapevo bene cosa volevo e soprattutto cosa non avrei voluto”. Il suo metodo, semplice quanto rivoluzionario per quei tempi, forse anche per oggi, è racchiuso in questa convinzione: “Sono le persone, guardate nel volto una per una, a suggerire il percorso, ad attivare idee e progetti, ad ispirarti nelle scelte giuste e più adeguate”.

Ed ecco che ritornano in scena le mani: “Vogliamo parlare delle strette di mano? Alberto, mentre ero indaffarata nel mio piccolo ufficio ricavato al Granaio, mi veniva a trovare ed un giorno, con grande difficoltà nel parlare, aveva voglia di raccontarmi dell’uccellino che era capitato nel balcone di casa sua. Ho sospeso tutto e prendendogli la mano, mi sono messa in ascolto. Mi emoziono ancora nel pensare a quello e a tanti momenti simili. Lui voleva farmi partecipe di quell’episodio e lo fece con tanta tenerezza. Sentivo di dover prendere la sua mano tra le mie e ho imparato proprio lì, grazie a lui, alla mia età, come si dà la mano. La mano la si dà toccandola per davvero, Alberto doveva sentire intensamente la mia presenza, avvertire anche la mia tenerezza, era tutto reciproco. Queste persone mi hanno sempre donato tanto, tantissimo”.

Paola Tonini Bossi insiste spesso sulla necessità di partire dalle piccole cose per poi osare ancora. Un metodo collaudato che è riuscito a mettere insieme la cura del quotidiano con progetti sempre più strutturati e professionali: “Il miracolo è avvenuto con una squadra bellissima che ha camminato passo dopo passo con me, condividendo i principi fondamentali  dell’essere insieme a persone rese fragili dalla malattia. Non c’era bisogno di dire come relazionarsi ai nostri ospiti, era qualcosa che esisteva già, uno stile condiviso e sottotraccia che ha reso il Granaio un posto tanto sereno, gioioso, vitale. Non ho trovato difficoltà nel lavorare con gli operatori, c’era una sorta di patto di fondo che ha reso tutto tanto naturale. Poi, naturalmente, la parte ‘politica’ e gestionale ha richiesto dialoghi, progetti, a volte anche qualche confronto acceso”.

Chi accoglie fragilità, qualunque siano, per Paola deve immaginare e realizzare percorsi ritagliati su misura. Certo, agire ‘a taglia unica’ semplifica il lavoro, ma cosa ne è dei volti? “C’è bisogno di guardare in faccia una persona alla volta, ognuno è unico e irripetibile ed ognuno offre, se lo si accoglie davvero, una proposta di cura efficace, quella più adatta alla sua unicità. A volte sembra quasi un di più che non serve, in molte realtà si pensa che basti garantire i bisogni fondamentali di cibo e assistenza, ma noi siamo fatti di tanto altro, fino alla fine. E questo ‘altro’ va ascoltato e custodito. Il rispetto della persona, nella sua interezza, è la base fondamentale dalla quale partire”.

Il ‘Granaio’ continua a funzionare così e Paola ne è molto orgogliosa. “Dopo gli anni terribili del Covid, ho avuto voglia di ritornare in quelle stanze. Confesso che ho pianto dall’emozione!  Mi rendo conto, sono un po’ presuntuosa, ma sono davvero felice che tutto prosegua come sempre e mi viene da dire ‘più di così, cosa vogliamo?’. Perché altre idee verranno da altri piccoli spunti, le persone e la realtà continuano a suggerire cosa sia meglio realizzare. Abbiamo l’oro nelle mani, gli ospiti ci rispettano profondamente, stanno bene al Granaio e questo si vede”.

Attorno a quelle stanze, in venti anni, si è mosso tanto. Basterebbe pensare ai convegni pubblici in occasione delle Giornate mondiali dell’Alzheimer, originali, sempre diversi nella proposta ed aperti alla città anche per far sentire meno sole le famiglie delle persone ammalate, sempre presenti insieme ai loro cari, commosse e grate. E con quei momenti pubblici di settembre, organizzati con grande cura, abbiamo tutti imparato tanto. In ogni occasione platea da tutto esaurito, per dirsi che l’Alzheimer insegna vita.

“L’apertura alla città è stata stimolata dalla mia convinzione che i malati dovevano stare in mezzo alle persone, cosiddette ‘normali’- continua Paola.  Un giorno mi è venuto in mente di organizzare la festa di carnevale alla Rotonda a mare, luogo significativo per Senigallia. Ho creato un po’ di scalpore, sembrava una forzatura, ma ne ero molto convinta. Anzi, mi sono detta, dobbiamo andare proprio lì a parlare di Alzheimer. Sono stati momenti bellissimi e nella festa di carnevale, entrando alla Rotonda, non si capiva chi era malato e chi no; questo mi è sembrata una cosa bellissima, l’occasione ci rendeva tutti uguali, con la stessa voglia di fare festa”.

Ormai il passo è fatto e Paola rilancia: “Guardavo con stupore la mole degli oggetti realizzati nelle tante attività al Centro e  mi è venuto in mente di organizzare una mostra. Altro luogo significativo, i locali dell’Expo – ex (di fianco alla Rocca roveresca) dove di solito espongono artisti esperti. E perché noi non eravamo grandi?”. Ride di gusto, Paola, ha ragione, degno luogo per tanta creatività semplice e geniale al contempo. Oggetti bellissimi, realizzati con cose semplici; come non pensare all’esposizione di presepi nel 2016, natività  create da mani delicate e fragili, ancora loro, tornate esperte, per condividere anche un festa come il Natale.  Iniziative per avvicinare mondi che fino a quel momento non si incontravano, occasioni per parlare di demenza in modo diverso, per guardare da tutt’altra prospettiva quanto solitamente ci terrorizza.

L’idea di fondo, semplice e anche stavolta rivoluzionaria, era che la malattia fa parte della vita e quindi bisogna andare dove c’è la vita. “Capisco il pudore e la riservatezza di tanti familiari, ma non bisogna emarginare le persone più fragili. Penso poi che tutti abbiamo bisogno di guardare in faccia quanto invece ci fa tanta paura, fare i conti con queste fragilità non è per niente facile, ma fuggire non serve a niente”.

Ecco allora l’altra iniziativa, mutuata da esperienze collaudate in Nord Europa: il caffè Alzheimer, uno spazio ed un tempo per vivere socialità vivaci e colorate, ricche di musica, balli, incontri e dolcetti. “E’ stata l’occasione per uscire dalla cappa che la malattia impone alle famiglie, di mettersi ancor di più in relazione. È capitato di raggiungere anche 50 presenze, tra persone ammalate e familiari; venire al Caffè era una festa, tanto che alcune signore arrivavano tutte agghindate con perle e rossetto. Le famiglie hanno dovuto superare il senso di colpa che inizialmente le portava a pensare di liberarsi dei propri cari, quasi ‘depositandoli’ al Caffè. Poi, sperimentando dal vivo il clima che si respirava, cambiavano idea ed erano felicissimi di partecipare tutti insieme”.

Paola Tonini Bossi ogni tanto si ferma e si intuisce che qualche altro volto torna a farle visita. Stavolta, al termine di questa bellissima chiacchierata, ci fa conoscere Mafalda: “E’ stata per tanti anni caporeparto alla Standa di Ancona. Ho chiuso gli occhi e mi sono immaginata quante maglie, tessuti, capi d’abbigliamento avrà piegato in vita sua. Sono andata nella cucina dell’Opera Pia, ho preso un po’ di tovaglioli già stirati e l’ho acciaccati, accartocciati, mi guardavano di traverso, ma si sono fidati. Poi ho chiesto a Mafalda se mi aiutava a piegarli: gli occhi sono tornati a brillare, si era di nuovo riconosciuta ed era tornata ad essere utile. Adesso, anche oggi, questa è un’attività consolidata all’interno della casa di riposo, sembra impossibile che tutto sia iniziato da quei quattro tovaglioli sgualciti appositamente! Non mi sono fermata lì, ormai si stupivano sempre di meno e alla lavanderia chiedevo di darci qualcosa da piegare, proponendo loro di non stirate tutto. E ancora: perché non contarli? Naturalmente a nessuno di noi interessava sapere quante tovaglie, lenzuola, strofinacci ci fossero. Era un modo alla nostra portata, utilissimo, di mantenere attiva ed allenata la mente”.

Un tovagliolo accartocciato che trova la sua forma, un gremito convegno con gli esperti più autorevoli: queste, in estrema sintesi, le coordinate di una vita spesa tra i più fragili, di una professionalità tanto creativa al servizio di chi, mentre perde pian piano i ricordi, conserva quanto è necessario per vivere davvero. E che, anche grazie a Paola Tonini Bossi, ha trovato casa nel Granaio, trasformando la nostra città in un luogo decisamente più degno di essere abitato.

Laura Mandolini

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