Il trentacinquesimo viaggio apostolico che porta papa Francesco ad attraversare il Mare Nostrum per raggiungere l’isola di Cipro e la Grecia, è carico di valenza simbolica ed ecumenica. Un viaggio agli albori della Chiesa nascente, soprattutto – come dichiarato dal Papa stesso – una risalita alle sorgenti: della fede apostolica, dell’unità tra cristiani di diverse confessioni, della fraternità, alle sorgenti della civiltà nei luoghi che sono culla della cultura dell’Occidente e dunque fonti “antiche dell’Europa”. E in questi luoghi dove si radica la memoria della cultura occidentale, della storia, della spiritualità e della civiltà si avvicinerà a «un’umanità ferita nella carne di tanti migranti in cerca di speranza» come ha detto alla vigilia della partenza.
“Come annunciato, Papa Francesco si recherà a Cipro dal 2 al 4 dicembre prossimi, visitando la città di Nicosia, e in Grecia dal 4 al 6 dicembre 2021, visitando Atene e l’isola di Lesvos. Il Santo Padre si recherà nei Paesi su invito delle Autorità civili ed ecclesiastiche locali. Il programma del viaggio sarà pubblicato a suo tempo”. Lo ha comunicato ai giornalisti il direttore della Sala Stampa della Santa Sede, Matteo Bruni.
Giovedì 2 dicembre l’aereo con a bordo il Santo Padre partirà dall’aeroporto di Fiumicino con destinazione Larnaca, dove arriverà dopo poco più di tre ore di volo. Sabato 4 dicembre il trasferimento da Larnaca ad Atene. Domenica 5 dicembre il Papa, sempre da Atene, raggiungerà Mytilene, distante 250 chilometri, per poi compiere nella stessa giornata il tragitto inverso e ritornare nella capitale greca. Lunedì 6 dicembre il volo di ritorno, da Roma a Ciampino, per una tratta di poco più di due ore. Il motto della tappa a Cipro è “Comforting each other in faith” – “Consolaci nella fede”: ispirato al nome dell’Apostolo Barnaba, che può significare figlio dell’esortazione o della consolazione (cfr At 4,36), “suggerisce l’importanza del conforto e dell’incoraggiamento reciproco, dimensioni essenziali per il dialogo, l’incontro e l’accoglienza e caratteri salienti della vita e della storia dell’isola”. Il motto della tappa in Grecia è tratto dal messaggio del Santo Padre per la 36a Giornata mondiale della gioventù: “Apriamoci alle sorprese di Dio, che vuole far risplendere la sua luce sul nostro cammino”.
L’arrivo del Papa a Bratislava, Slovacchia, accolto dalla Presidente Zuzana Čaputová
Come un saggio importante, che intreccia attualità e memoria per provare a pensare il domani, il viaggio di papa Francesco a Budapest e in Slovacchia può essere letto a capitoli. Ognuno in se stesso un valore e una sfida: pace, fraternità, dialogo, cultura dell’incontro, contemplazione, vita attiva.
A tenerli insieme, filo rosso prezioso e fragile, l’educazione alla libertà, un bene tanto difficile da conquistare e riconquistare, quant’è semplice perderlo o abbruttirlo in una sua distorsione. La storia è piena zeppa di spazi di confronto ridotti a fortino e anche i cortili più ampi, se li circondi di spine intrecciate tra loro e pezzi di vetro, diventano prigioni. Il rischio è grande soprattutto in quelle realtà dove il terrore e i totalitarismi hanno puntato in primis sull’asservimento delle coscienze, lasciandosi dietro un’eredità di paura su cui oggi cattivi maestri possono elaborare nuove-vecchie frontiere di divisione. E il pensiero va subito alle politiche di chiusure nei confronti di rifugiati e profughi, la cui ragione è da ricercare nella volontà di blindare una «cosiddetta identità», come l’ha chiamata il Papa a Budapest, considerata a rischio e per questo da picchettare in «una rigida difesa».
Non che la fede cristiana non sia attaccata, ha più volte ribadito Francesco, ma qui si tratta di individuare con chiarezza gli avversari, senza lanciare accuse ‘nel mucchio’, a maggior ragione verso uomini e donne che già hanno pagato prezzi intollerabili all’odio, evitando al tempo stesso di mettersi al servizio di chi, mascherato dietro una presunta difesa di interessi nazionali o identitari, crea nuovi egoismi e piccona il senso sociale. In proposito, nel discorso ai vescovi ungheresi il Papa è stato chiaro: anche se inizialmente può fare un po’ paura, la diversità rappresenta una grande opportunità per aprirsi al cuore del messaggio evangelico, che è una chiamata all’amore. Detto in un altro modo, la croce di Cristo, mentre esorta a mantenere salde le radici, invita ad aprirsi agli assetati del nostro tempo.
Cioè a bagnare e quindi restituire vita a tutte le aridità di oggi, a cominciare dall’animo che si spegne quando non sa più riconoscere nell’altro un fratello. Un pericolo presente ovunque, non solo nell’Oriente d’Europa, ma che qui, forse per un retaggio culturale, forse a causa di storiche, ingiuste penalizzazioni economico-sociali, appare più rimarcato. Dietro la porta, a bussare ogni giorno con maggiore forza c’è infatti il rischio di deturpare il volto della libertà, che per sua natura cresce nella partecipazione e nel sentire comunitario, trasformandolo in corse solitarie o in cooperazioni tra gruppi più o meno grandi, che dall’oggi al domani possono peraltro cambiare linea e scoprirsi nemici.
La tentazione allora, pur se non detta, non formalizzata, e forse neppure riconosciuta davvero, è quella di ritrovarsi in balìa di un nemico per certi versi peggiore della persecuzione ateista, una schiavitù che viene da dentro, tutta interiore. Subdola, pericolosa in quanto fondata su muri che ci costruiamo da soli, giorno per giorno, mattone dopo mattone, violenza sopra violenza. Succede quando pretendiamo di semplificare troppo ciò che è complesso, quando si arma la disperazione, quando vengono disegnati fantasmi intorno alle fragilità per loro natura più tristi e cupe. È la condizione di chi, parafrasando la lezione del ‘grande inquisitore’ in Dostoevskij, scopriamo disposto a barattare l’autonomia di pensiero e l’azione che ne deriva, per un po’ di pane e di sicurezza. Perché non lo si dice ma la schiavitù, almeno quella a buon mercato, che blandisce e accarezza mentre toglie aria ai polmoni, è più comoda della libertà.
Garantisce tranquillità, evita il mal di cuore, chiude gli occhi (e la bocca e le orecchie) di fronte all’orrore. Significa quieto vivere, calma, dondolìo sognante nell’inerzia del tempo che avanza. L’esatto contrario del cristianesimo che, nella logica di un Dio il cui nome è amore, non può che mettere al centro la persona, che chiede il coraggio di scelte e rinunce forti, che punta all’unità implorata da Gesù nel Vangelo di Giovanni. Non piccole comunità indifferenti l’una all’altra, ma la fraternità tra tutti i membri della stessa famiglia umana. La nostra libertà, ci insegna il Vangelo, passa dalla libertà del fratello e della sorella, specie i più fragili, e non potrà essere mai piena senza di lui. Senza di lei.
L’incontro interreligioso ad Ur, nel Sud dell’Iraq
Il ‘solito’ Papa che, mentre il mondo è imprigionato e ferito da una pandemia che non dà tregua, va a trovare un Paese, l’Iraq, dimenticato dalle carte geografiche che contano e dai palinsesti più blasonati. Lo stesso posto che qualche anno fa godeva delle aperture dei tg, ‘grazie’ alle sue tragedie infinite: dittatori (ex amici), due guerre decise a tavolino dal saggio Occidente, la presenza dei nostri militari, il terrorismo e la follia dell’Isis, la guerra nella vicinissima Siria. Poi, il nulla! Un paese e il suo popolo semplicemente spariti dal nostro sguardo, inesistenti.
Fino a ieri, fino a quando il vecchio papa, quasi incurante dei tanti buoni consigli che lo avrebbero fatto desistere, parte. Del resto va a trovare Abramo, uno che di partenze se ne intendeva. Quasi con la stessa incoscienza, in un salto nel buio che rimette al centro della scena un tema antico, quanto fuori moda: la fratellanza, la capacità degli esseri umani di fare spazio a quanto di più bello vive in loro. Il Papa incoraggia i superstiti cristiani, sorelle e fratelli di quei troppi martiri dei giorni nostri; incontra il capo spirituale supremo degli Sciiti, si spinge verso la desertica Ur, splendido sito che parla dell’origine della civiltà mediorientale (e quindi anche occidentale).
Accetta il paradosso di parlare ai capi delle religioni monoteiste proprio quando il loro peso sulle coscienze, sulle politiche è drasticamente diminuito. Ed è singolare come le stesse religioni, quando contavano di più, non si siano sottratte ad essere piattaforme ideologiche di guerre e conflitti di ogni tipo. È come se dicesse: “Ora che ci siamo stancati di usare politicamente le nostre fedi, torniamo alla loro carica profondamente umana, torniamo al loro cuore”.
Tra il vento del deserto, a due passi dalla Ziggurat, una delle più grandi antiche torri al mondo, ha il coraggio di indicarci la strada, di farci fermare e desiderare un mondo che già su questa terra profuma di eternità.
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