Nell’ambito della pastorale diocesana e del servizio alle parrocchie il vescovo diocesano Franco Manenti ha reso note le seguenti nomine che avranno inizio giuridico dal 1 settembre 2024: don Sergio Zandri per raggiunti limiti di età lascia il servizio di parroco delle parrocchie di Arcevia e si ritira presso l’Opera Pia Mastai Ferretti a Senigallia a disposizione per la pastorale nelle parrocchie della città. Don Mario Camborata lascia il servizio di parroco nelle parrocchie dell’Unità pastorale “Buon Samaritano” (Pace, Cesanella, Cesano, Scapezzano) in Senigallia ed è nominato parroco delle Parrocchie di San Medardo, San Giovanni Battista, Castiglioni-Prosano, Costa-Santo Stefano, Magnadorsa-Colle Aprico in Arcevia. Don Andrea Franceschini lascia il servizio di parroco nelle parrocchie dell’Unità pastorale “Emmaus” (Marzocca, Montignano) in Senigallia ed è nominato parroco delle Parrocchie della Pace, Cesanella, Cesano, Scapezzano in Senigallia. Don Emanuele Lauretani lascia il servizio di parroco nelle parrocchie di Mondolfo e Ponterio in Trecastelli ed è nominato parroco delle Parrocchie di Marzocca e Montignano in Senigallia. Don Luca Principi lascia il servizio di parroco nelle parrocchie di Pianello e Casine in Ostra ed è nominato parroco delle Parrocchie di Mondolfo e Ponterio in Trecastelli. Don Giuseppe Giacani permanendo parroco di Ostra è nominato anche parroco di Pianello e Casine in Ostra.
Sono entrato nelle parrocchie di Monte San Vito e Borghetto ad inizio settembre 2022 dopo essere stato viceparroco a Marina, Morro e Belvedere, Responsabile della Pastorale Giovanile e ancora viceparroco a Corinaldo e Castelleone. Questi 15 anni di sacerdozio sono stati molto importanti per me perché ho potuto fare esperienza diretta di cosa significa coordinare una realtà comunitaria come la parrocchia, e questo soprattutto grazie alla collaborazione con i parroci che mi hanno accolto e con cui ho collaborato come viceparroco e grazie anche a laici disponibili, preparati e corresponsabili con cui ho instaurato relazioni significative che ancora permangono nella mia vita.
Settembre scorso è stato un mese combattuto dentro di me: da una parte vivevo l’entusiasmo di un nuovo inizio, con lo stimolo della chiamata del Vescovo ad accogliere questo nuovo servizio come parroco, l’accoglienza calda ed affettuosa delle nuove parrocchie e dei rappresentanti della della cittadinanza, dall’altra provavo tristezza e dolore per ciò che era avvenuto con il disastro dell’alluvione, tanto più che il giorno finale del trasloco passavo con il pulmino in mezzo alla allagata e distrutta vallata del Nevola con la “mia gente” colpita dal disastro nelle proprie case e famiglie, ed io, incredulo e inquieto, non potevo essere di aiuto come avrei voluto..
Ora, superata ormai anche la prima fase di ambientamento, tra spazi e ambienti inediti, gente nuova da vedere ed incontrare, orari da ricalibrare visto anche che quest’anno dopo quattro anni non insegno religione, mi trovo in un momento di stabilizzazione di quanto sto vivendo. Ricordo che in seminario i formatori ci dicevano: “quando sarete parroci in una nuova parrocchia, entratevi con umiltà e mettetevi in ascolto e visione di ciò che già il Signore ha operato e sta operando, poi, solo in un secondo momento potrete proporre e portare quelle idee che, sempre il Signore vi sta ispirando, a patto che siano “ecclesiali”, cio’è espressione di scelte di comunità”; questo mi ripropongo di vivere anche se a volte, non lo nascondo, ho la tentazione di togliere o aggiungere quasi in automatico delle realtà..
Un aiuto prezioso per me rappresenta la comunità presbiterale di cui faccio parte all’Abbazia di Chiaravalle; poter vivere insieme tra sacerdoti è una risorsa che oggi non dovrebbe mancare mai. Almeno come possibilità per tutti i preti.
Bello per me conoscere le persone di questa unità pastorale chiamata Koine’, il termine greco che i primi cristiani usavano per definirsi, appunto, come persone comunionali; c’è un forte senso di comunità che si esplicita in vari ambiti del vivere, come ad esempio le Celebrazioni Eucaristiche, preparate con cura dal coro, dal gruppo liturgia e da quanti partecipano con assiduità; le adorazioni e i rosari comunitari animati con fede e devozione, le feste “a tema”, ad esempio dei nuovi battezzati, dei papà, delle mamme, ecc.. sono momenti caldi e vissuti da tutti con bell’entusiasmo e desiderio di esserci. L’oratorio e i vari percorsi dei giovani e giovanissimi, conoscono alti e bassi come tutti, ma con la guida di validi punti di riferimento ed educatori, optano per percorsi costanti e forti dal punto di vista della formazione e del servizio; lo sparuto gruppetto dell’ Unitalsi è desideroso di ricominciare con una presenza più qualitativa presso le realtà di fragilità e sofferenza cosi come i ministri straordinari dell’Eucarestia svolgono il loro ruolo con fede e passione. Le famiglie trovano o creano assidui momenti di relazione, incontro e distensione con la possibilità di passare del tempo insieme che è sempre rigenerante, e spesso anche i figli adolescenti e giovani partecipano con i genitori. Una realtà che con piacere sto conoscendo è quella dei gruppi sinodali, che su invito di Papa Francesco e dei vescovi, anche qui noi stanno intraprendendo un cammino di fiduciosa, estroversa ma a volte anche silenziosa riforma del vivere cristiano. Auspico, per quel che mi compete, di potermi inserire sempre meglio e di poter apportare ciò che la grazia di Dio sta preparando nei nostri cuori e nelle relazioni della nostra Koinè, nell’apertura ecclesiale sempre più diocesana e in una spiritualità che tocchi i cuori che si scoprono amati da Cristo, quando si fa esperienza che “è bello e dolce che i fratelli vivano insieme” (SL 133).
Andrea Baldoni
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Chiusa la prima tappa del Sinodo della Chiesa cattolica. E’ stato pubblicato l’Instrumentum laboris, “strumento operativo” redatto sulla base di tutto il materiale raccolto durante la fase dell’ascolto, e in particolare dei Documenti finali delle Assemblee svoltesi in tutto il mondo. E’ diviso in due le sezioni: la sezione A, intitolata “Per una Chiesa sinodale”, prova a raccogliere i frutti della rilettura del cammino percorso, mentre la sezione B, intitolata “Comunione, missione, partecipazione”, esprime in forma di interrogativo le tre priorità che con maggiore forza emergono dal lavoro di tutti i continenti, sottoponendole al discernimento dell’Assemblea. Cinque le schede di lavoro che consentono di affrontare altrettanti temi, a partire da prospettive diverse.
Abusi e divorziati risposati. “In molte regioni le Chiese sono profondamente colpite dalla crisi degli abusi”, si denuncia nel testo: ”la cultura del clericalismo e le diverse forme di abuso – sessuale, finanziario, spirituale e di potere erodono la credibilità della Chiesa compromettendo l’efficacia della sua missione”. Nel documento, inoltre, si auspicano “passi concreti per andare incontro alle persone che si sentono escluse dalla Chiesa in ragione della loro affettività e sessualità”, come “divorziati risposati, persone in matrimonio poligamico, persone LGBTQ+”. Altro interrogativo da porsi, “come possiamo essere più aperti e accoglienti verso migranti e rifugiati, minoranze etniche e culturali, comunità indigene che da lungo tempo sono parte della Chiesa ma sono spesso ai margini”, in modo da “testimoniare che la loro presenza è un dono”.
Autorità e primato. Il documento finale dà ampio risalto al tema del primato petrino e alla necessità di un “ripensamento dei processi decisionali”, all’insegna di una “sana decentralizzazione” all’interno della Chiesa. “La diversità dei carismi senza l’autorità diventa anarchia, così come il rigore dell’autorità senza la ricchezza dei carismi, dei ministeri, delle vocazioni diventa dittatura”, il monito del documento. “Come sono chiamati a evolvere, in una Chiesa sinodale, il ruolo del vescovo di Roma e l’esercizio del primato?”, una delle sfide da affrontare, tenendo presente che “autorità, responsabilità e ruoli di governo – talvolta indicati sinteticamente con il termine inglese leadership – si declinano in una varietà di forme all’interno della Chiesa”. Di qui la necessità di una formazione specifica a tali competenze “per chi occupa posizioni di responsabilità e autorità, oltre che sull’attivazione di procedure di selezione più partecipative, in particolare per i vescovi”.
Laici e donne. “Dare nuovo slancio alla partecipazione peculiare dei laici all’evangelizzazione nei vari ambiti della vita sociale, culturale, economica, politica”. Anche il tema dei “nuovi ministeri” al servizio della Chiesa trova ampio spazio nel testo: l’obiettivo è quello di “una reale ed effettiva corresponsabilità”, coinvolgendo anche quei fedeli che, “per diverse ragioni, sono ai margini della vita della comunità”. In particolare, nell’Instrumentum laboris si dà voce all’istanza di “un maggiore riconoscimento e promozione della dignità battesimale delle donne”, affinché la “pari dignità” possa “trovare una realizzazione sempre più concreta nella vita della Chiesa anche attraverso relazioni di mutualità, reciprocità e complementarità tra uomini e donne”, combattendo “tutte le forme di discriminazione ed esclusione” e garantendo alle donne “posti di responsabilità e di governo”.
Preti sposati e ambiente digitale. “È possibile aprire una riflessione sulla possibilità di rivedere, almeno in alcune aree, la disciplina sull’accesso al Presbiterato di uomini sposati?”, ci si chiede nel testo, in cui a proposito dei candidati al sacerdozio si auspica “una riforma dei curricula di formazione nei seminari e nelle scuole di teologia”. “L’ambiente digitale ormai modella la vita della società”, si afferma nel documento, in cui si auspica un aggiornamento dei linguaggi e dell’”accompagnamento” in questo ambiente, attraverso percorsi adeguati.
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Don Francesco Orsi di Luigi e di Maria Andreolini nacque a Ostra il 23 maggio 1930. Il 15 marzo 1953 venne ordinato sacerdote e dal 28 giugno 1953 al 4 dicembre 1959 fu cappellano a Santa Croce in Ostra. Tra i suoi primi incarichi vi fu quello di seguire la costruzione della piccola chiesa di Santa Maria Goretti in contrada la Corea, al confine tra Ostra e il Filetto di Senigallia. La nuova chiesa venne inaugurata la sera del 18 ottobre 1958 dal Vescovo Diocesano Mons. Umberto Ravetta ed è stato il primo edificio sacro della diocesi ad essere dedicato alla Santa di Corinaldo. A Corinaldo, dal 1959 al 1° luglio1965 trascorse sette anni al servizio sacerdotale della parrocchia come cappellano. Passò poi per un anno alla Chiesa della Pace di Senigallia e il 4 luglio del 1966 a San Pietro di Vaccarile dove venne nominato vicario-curato parrocchiale e rimase sino al 1972 per passare poi alla Parrocchia di Santa Lucia nella Chiesa di San Francesco in Ostra come Economo Spirituale sino al 1974, anno in cui il Vescovo di Senigallia lo nominò, il 21 maggio, Rettore del Santuario della Madonna della Rosa. Il suo impegno verso il Santuario Ostrense fu continuo, costante e si concretizzò in più modi. Innanzi tutto accrebbe la devozione verso Maria Santissima, poi concentrò tutti i suoi sforzi alla conservazione e decoro dell’edificio sacro. Sin da subito lo dotò di un riscaldamento a termosifone, rinnovò l’impianto elettrico con l’installazione di cinque nuovi lampadari, e abbellì la chiesa con un rivestimento in marmo verde Alpi per tutto lo zoccolo interno e delle basi delle colonne, contemporaneamente provvide alla ripresa delle dorature e fece ritinteggiare l’interno del tempio. Nel 1975 subì il furto sacrilego dei falsi gioielli all’Immagine e delcalice che aveva offerto alla Madonna in ricordo della sua ordinazione sacerdotale. Nel 1979 acquisì la donazione di m2 3.017 per la costruzione di una nuova strada che collegasse il Santuario al cimitero e alla strada Ostra-Montemarciano, facilitando così il ritorno di quanti si recavano al Santuario, che ancora permolteplici vicende non è stato possibile realizzare. Tra il 1981 e il 1986 ha poi provveduto ad elettrificare il suono delle campane, al restauro degli affreschi della cappellina eseguiti da Domenico Germani e dell’organo del Montecucchi compiuto dalla Ditta Anselmi Tamburini di Pianego, in provincia di Cremona. Successivamente promosse il restauro del coro posto davanti alla cappella e dell’altro organo positivo del 1721 con la posa in opera diun cancello protettivo, opera del fabbro Ostrense Lorenzo Catalani. Altri lavori vennero eseguiti, come la nuova pavimentazione del marciapiede antistante la facciata e il restauro della venerata immagine della Rosa, grazie all’offerta del Dott. Giuseppe Cioci e delle sue due figlie, ad opera di Nino Pieri, e dei 120 ex-voti, grazie a un contributo della Fondazione della Cassa di Risparmio di Jesi. Una data storica per il Santuario è stata quella dell’8 dicembre 1992, festa dell’Immacolata Concezione, quando il Vescovo Odo Fusi Pecci ha consacrato, ossia dedicato il Santuario. Un nuovo parcheggio viene realizzato nel 1988. Nel2002 è invece inaugurato il rinnovato viale, andando così a coronare un altro sogno. Don Francesco in occasione del suo 50° di sacerdozio ha fatto dono di due nuove statue di pietra leccese che rappresentano il Santo Patrono Gaudenzio e Sant’Emidio. Così dal giugno del 2003 si è restituito alla facciata la configurazione originaria, mutata dopo la rimozione delle vecchie statue in terracotta, perché consumate dal tempo. Dopo trent’anni di vita a fianco del Santuario, rassegnò per limiti d’età le dimissioni da Rettore del Santuario. Restò comunque emerito e da allora continua a svolgere il suo apostolato, affiancando il suo successore e accogliendo le migliaia di pellegrini che annualmente visitano il Santuario e si inginocchiano davanti alla Madre celeste sempre dispensatrice di grazie e gioie.
“Preti altrimenti” è il titolo di un interessante (e dibattuto) editoriale di Giuliano Zanchi, apparso nell’ultimo numero della “Rivista del Clero”, glorioso periodico per la formazione dei preti – ma non solo – edito dall’Università Cattolica di Milano. Il contributo di Zanchi, presbitero della diocesi di Bergamo e docente di Teologia presso la Cattolica, nonché direttore della medesima rivista, parte da un dato trasversale a molte diocesi italiane (ed anche europee): in questo nostro tempo (l’età post-secolare), essere preti è diventato “un rompicapo” che non ha ancora trovato la forza di suscitare “adeguate correzioni di forma e coerenti scelte istituzionali”. A differenza di quello che accadde, ad esempio, nell’epoca successiva al Concilio di Trento, che seppe trovare delle risposte efficaci.
L’autorevolezza del presbitero oggi – denuncia Zanchi – “è una continua conquista sul campo, che chiama in causa carismi e attitudini spiccatamente individuali”. Al prete tocca sostanzialmente “recitare a soggetto”, puntando sulle carte personali che ha a disposizione (i suoi talenti, le sue capacità…) a seconda delle situazioni in cui si trova, dal momento che il suo ruolo di presbitero non è più decifrato in modo univoco dal contesto sociale in cui vive.
Da qui l’emergere, in modo sempre più evidente secondo Zanchi, della richiesta di molti preti di “connotare altrimenti il loro ministero”, per lo più in alternativa al convenzionale mansionario della parrocchia, “percepita sempre più come un concentrato di routine inconcludenti e strutture divoranti, fonte di un logorio che per molti sembra aver ormai sorpassato i suoi limiti di sopportazione”. Con il conseguente effetto di “disertare il tradizionale compito…
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«Abbiamo perso credibilità. La gente non crede più nella Chiesa, nei preti, nei vescovi. Non solo è diventato molto difficile per le persone credere nella Chiesa, ma è difficile anche capire cosa e se la Chiesa ha ancora qualcosa da dire oggi nella società post-moderna». ÈFranz-Josef Overbeck, vescovo di Essen, a spiegare come la Chiesa cattolica in Germania si sta impegnando nel cammino sinodale in un contesto profondamente segnato dagli scandali degli abusi. «Il cammino sinodale che abbiamo percorso finora è stato generato sostanzialmente dalla crisi dell’abuso, dal dramma di preti che hanno abusato di minorenni e bambini. Uno scandalo scoppiato nel 2010 che ci ha costretto a cercare, non solo come vescovi e preti, ma insieme a tutto il popolo di Dio e tutti gli uomini di buona volontà, le strade per aprire una nuova tappa della nostra storia come Chiesa in Germania».
Quali effetti ha avuto questa tragedia in Germania? Abbiamo perso credibilità. La gente non crede più nella Chiesa, nei preti, nei vescovi. Ha ragione Papa Francesco quando dice che stiamo vivendo non tanto un’epoca di cambiamento quanto un cambiamento d’epoca. Ci stiamo chiedendo allora come possiamo reagire. Non solo è diventato molto difficile per le persone credere nella Chiesa ma è difficile anche capire cosa e se la Chiesa ha ancora qualcosa da dire oggi nella società postmoderna, mettendo in discussione la plausibilità stessa della fede come sorgente della esistenza del cristianesimo come tale.
Diceva che il cammino sinodale è un processo il cui esito nessuno ancora conosce. Ma dove si vuole arrivare? Quando la meta del cammino è sconosciuta, bisogna fare un passo dopo l’altro. Questa è la saggezza della Chiesa maturata in 2000 anni di storia e questo è quello che stiamo facendo in Germania. Non conosciamo bene l’esito del percorso ma conosciamo la prossima tappa. Stiamo cercando in questo momento di dare insieme risposte nuove alle domande che ci pone la gente…
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Nel giro di trent’anni il numero dei sacerdoti operanti in Italia è diminuito del 16,5 per cento. Erano 38.209 nel 1990. Sono diventati 31.793 nel 2020. In pratica 6.416 in meno. Una riduzione che solo in parte è stata compensata dall’ingresso in Italia di un sempre maggior numero di sacerdoti stranieri al servizio delle diocesi italiane. Che secondo i dati aggiornati sempre allo scorso anno sono passati da 204 nel 1990 a 2.631 nel 2020.
Questi alcuni dei numeri principali di una “fotografia” sulla presenza presbiterale in Italia presentati recentemente ai vescovi e di cui ieri ha dato notizia l’agenzia Sir, promossa dalla Cei.
Tra i soli sacerdoti italiani, dunque, si è registrato un calo del 19,8% (da 36.350 unità nel 2000 a 29.162 nel 2020) mentre i sacerdoti stranieri rappresentano oggi l’8,3% del totale. Inoltre dalle elaborazioni fornite dall’Istituto centrale di sostentamento del clero, si apprende che l’età media del clero è pari a 60,6 anni (+3,2% rispetto al 2000). Tra i soli italiani si sale a 61,8 anni (con un aumentata del 4,1% nell’arco degli ultimi 20 anni), mentre quella dei sacerdoti stranieri è pari a 46,7 anni. Quanto alle fasce di età, in contrazione sono, in particolare, i preti fino ai 30 anni, passati dai 1.708 nel 2000 ai 599 nel 2020 (-60%), a fronte di un calo demografico pari al 20% tra la corrispondente popolazione generale.
Le diocesi con la maggior presenza di sacerdoti non italiani sono nel centro Italia: nel Lazio, su 2.804 sacerdoti 626 sono stranieri (22,3%). Seguono le 11 diocesi dell’Abruzzo (con il 16%), le 18 diocesi della Toscana (con il 16%) e le 8 diocesi dell’Umbria (con il 15%). Molto più contenuta la presenza in Lombardia con 82 sacerdoti stranieri (1,8%) e in Puglia con solo 65 preti stranieri (il 3,3%).
Interessanti anche i numeri riguardanti i parroci. Nel 2020 in Italia su 25.595 parrocchie i parroci erano 15.133. Ciò significa che in media ogni parroco ha la responsabilità pastorale di 1,7 parrocchie e che oggi in Italia c’è un parroco ogni 4.160 abitanti. Le regioni con la minor percentuale di parroci sono la Lombardia, il Lazio e la Puglia, quelle con la maggior presenza sono l’Abruzzo-Molise, l’Umbria e la Calabria.
Non bisogna poi dimenticare i sacerdoti italiani che vanno a svolgere il loro ministero in favore di Chiese di altre nazioni. Si tratta di una piccola minoranza, è vero, ma pur sempre significativa. Si tratta dei “fidei donum”. A fronte dei già ricordati 2.631 sacerdoti stranieri sul territorio nazionale, quelli italiani che operano all’estero sono 348, ossia l’1,1% del totale. Nel corso degli ultimi vent’anni anche il numero si è fortemente ridimensionato, anzi è sostanzialmente dimezzato: erano infatti 630 nel 2000. E infine ci sono i numeri dei decessi degli ultimi due anni, in gran parte a causa della pandemia. Nel 2020 sono morti 958 preti con un incremento di quasi un terzo, rispetto ai 742 morti del 2019. In particolare, se andiamo a vedere la mortalità della prima ondata, notiamo che nel periodo marzo/aprile 2020 sono morti 248 sacerdoti, ovvero quasi il doppio (+92%) di quelli scomparsi nell’analogo arco temporale del 2019 (129). Ancora peggio nel momento culminante della seconda ondata: i 240 morti tra novembre e dicembre del 2020 sono più del doppio (+101%) di quelli dell’anno precedente (119).
«I dati non devono allarmare – commenta don Michele Gianola, sottosegretario della Cei e direttore dell’Ufficio nazionale per la pastorale della vocazioni –, ma vanno seriamente presi in considerazione perché intercettano la domanda sulla fecondità vocazionale delle nostre Chiese italiane, gli orizzonti della pastorale giovanile e scolastica, ridondano sulla vita e il ministero dei presbiteri e delle comunità di vita consacrata». Secondo don Gianola, i numeri «evidenziano l’inquietudine espressa da Papa Francesco nel discorso di apertura della 71ª Assemblea generale della Cei, il 21 maggio 2018 quando si disse “preoccupato per l’emorragia delle vocazioni”.
In questo senso, soluzioni di ripiego hanno già mostrato la loro fragilità in vista di una risposta adeguata: ragionare con prospettive di medio o, addirittura, corto respiro, può sterilizzare la generatività della comunità. Occorre ricordare che le vocazioni vengono generate dalla Chiesa madre; a volte, viene dimenticata o trascurata questa capacità generativa». Per questo, conclude il sottosegretario della Cei, «tornare a respirare non significa necessariamente crescere di numero ma intuire, discernere sinodalmente e percorrere con coraggio vie di rinnovamento ecclesiale nel fresco solco del Concilio Vaticano II».
Matteo Guazzarotti, al centro; accanto a lui p. Matteo Pettinari, missionario in Costa d’Avorio
Raccontaci un po’ di te, Matteo… Ho 34 anni, vengo da Ostra Vetere, una sorella (radiologa, che ora lavora a Milano). Sono cresciuto in famiglia e in parrocchia, dove per diversi anni ho fatto il ministrante. Dopo qualche anno un po’ più in disparte, nel 2007 insieme ad Andrea Falcinelli (prima che entrasse in seminario) e ad Andrea Baldoni (che svolgeva il tirocinio pastorale come seminarista) ho vissuto una forte esperienza di fede all’Agorà dei Giovani di Loreto. Da lì è “rifiorito” l’impegno in parrocchia ed è iniziato un serio cammino di fede e discernimento che mi ha portato, nel 2012, a lasciare il mio lavoro da impiegato per vivere un Anno di Volontariato Sociale con la Caritas di Senigallia. In quell’anno, la vita a servizio dei poveri ed un serio cammino di discernimento, mi hanno portato alla scelta dell’ingresso in seminario. Per 7 anni ho poi vissuto e sono cresciuto nella fede grazie alla comunità del Pontificio Seminario Regionale Marchigiano Pio XI. Durante il percorso di formazione ho conosciuto, attraverso l’esperienza del tirocinio pastorale, le comunità di Trecastelli e di Marzocca. Dallo scorso settembre, il Vescovo Franco, mi ha inviato a svolgere il mio servizio come collaboratore pastorale nelle parrocchie dell’Unità Pastorale “Buon Samaritano” (Pace, Cesanella, Cesano, Scapezzano). Amo leggere, ascoltare musica ed ho una particolare attenzione per le serie tv (da cui traggo diversi spunti di riflessione). Sono particolarmente competitivo e tenace, per questo sono anche un “rompiscatole”
La Chiesa che vivi, quella che desideri, quella che fa i conti con il presente: come si incrociano in te? Tre esperienze di Chiesa hanno segnato particolarmente la mia storia: quella vissuta ad Ostra Veticolare, tere (dove son cresciuto), quella Diocesana (tra Punto Giovane, Settimane di Condivisione, servizio in equipe Giovani di Azione Cattolica) e quella vissuta in Seminario durante la formazione. Da queste esperienze di Chiesa, in cui fraternità, preghiera comune, condivisione e amicizia si fondono e trovano compimento nel volto di Cristo trae forza la mia missione e il desiderio di costruire una Chiesa che abbia sempre più i lineamenti del volto di Cristo: capace di incontro, dialogo, accoglienza, misericordia, ma anche che sia custodita dalla preghiera, alimentata dalla fraternità, arricchita da amicizie significative. Sogno una Chiesa che si senta davvero “popolo di Dio in cammino”, diversa eppure capace di comunione, non schiacciata sulle cose da fare ma attenta alle persone. La Chiesa che oggi viviamo, e che in questo anno di pandemia vissuto in parrocchia ho conosciuto, è una Chiesa ferita, talvolta in affanno; ma non per questo è una Chiesa disprezzabile, anzi: in essa trovano, e stanno crescendo, piccoli germi di futuro. È importante coltivarli, accoglierli, custodirli, perché non vengano bruciati e trovino continuamente linfa vitale nell’incontro con Cristo nei Sacramenti e nella Parola di Dio.
La vocazione presbiterale alla prova dell’oggi: cosa ti aiuta, cosa invece rende più sfidante questa scelta? Ho sempre amato le sfide e, in par- quelle più in salita: oggi essere ordinato è un atto di “follia”. In questo mi sento particolarmente aiutato dalle belle amicizie, tessute in questi anni, con diversi presbiteri oltre all’amicizia con Mirco (con cui ho condiviso tutto il percorso della formazione): sento e riconosco nella fraternità uno strumento per mantenere salda la rotta della vita verso Cristo. Riconosco, e accolgo con bellezza, la sfida di questo tempo: che è tempo di pandemia, ma anche di “raffreddamento” della fede per molti. Un tempo che costringe a cercare strade nuove, modi diversi, stili nuovi di annuncio del Vangelo. La sfida è particolarmente difficile, ma proprio per questo affascinante: annunciare Cristo, eterna novità, in questo mondo iperconnesso e individualistico mi stimola continuamente a camminare per trovare modi, stili, incontri, azioni, energie, parole, tecniche, strumenti sempre nuovi per venire incontro alle domande. O forse, ancora meglio, per far emergere le domande che spesso seppelliamo nel cuore per paura: chi sono? a che serve la mia vita? perché? E sarà, spero, splendido accompagnare le comunità e le persone a trovare in Cristo la chiave di volta di una vita che è bella e buona, una vita che è amata da Dio, una vita che è dono e compito.
Il pontificato di papa Francesco rilancia spesso un ‘identikit’ sacerdotale spesso in discontinuità con la figura classica del prete. Cosa suscita in te? Non credo che l’identikit proposto da Papa Francesco sia così in discontinuità: credo, piuttosto, che il Papa stia attingendo dai tesori della Tradizione della fede per risvegliare alcuni aspetti della figura del presbitero che rischiano di essere dimenticati (sia dai preti stessi, che dalle persone). In particolare, mi sento di sottolineare, come il Papa ritorni spesso sull’umanità del prete: la mia storia mi ha portato a vivere e scoprire (a mie spese) la fragilità dell’essere presbitero. Ma mi ha anche aiutato molto a scoprire che è proprio l’umanità lo strumento e il mezzo per l’incontro con le persone e per l’annuncio della fede: Cristo che si è fatto carne, per questo è la mia umanità il luogo privilegiato per annunciarlo. Una umanità imperfetta, fragile, fatta di terra e spirito (come ci ricorda la Genesi) ma non per questo da buttare, anzi! Qualche giorno fa, lo stesso Papa Francesco (nell’udienza col Seminario Regionale di Ancona) sottolineava come “il mondo è assetato di sacerdoti in grado di comunicare la bontà del Signore a chi ha sperimentato il peccato e il fallimento, di preti esperti in umanità, di pastori disposti a condividere le gioie e le fatiche dei fratelli, di uomini che si lasciano segnare dal grido di chi soffre. Attingete l’umanità di Gesù dal Vangelo e dal Tabernacolo, ricercatela nelle vite dei santi e di tanti eroi della carità, pensate all’esempio genuino di chi vi ha trasmesso la fede, ai vostri nonni, e ai vostri genitori”.
È di questa umanità, credo, che il mondo ha bisogno: davanti ad una società che tende alla “robotizzazione”, alla “standardizzazione”, che parla di personalizzazione dei servizi (ma li riconduce a prodotti preconfezionati)… annunciare l’amore di Cristo (che è universale, perché per tutti, ma anche singolare, perché si presenta in forme diverse per ciascuno) mi sembra una sfida splendida: aiutare tutti e ciascuno a scoprirsi amati “a modo proprio”, a vedere che la misura della vita è l’amore, che il vero cibo è il corpo di Cristo, che la chiave per delle belle relazioni è la Misericordia, che lo strumento per vivere la fedeltà è la memoria grata (e potrei continuare)… E questa non mi sembra una “sconvolgente novità”: è il Vangelo, quello che da 2000 anni la Chiesa prova ad annunciare, dentro le alterne vicende della storia. E che, spero, anche io presto di poter annunciare da presbitero: con i miei limiti, con le mie fragilità, ma anche con l’esperienza incarnata della misericordia di Dio, di un Padre che mi ha chiamato (indegnamente) per servire tutti, per essere “mani che spezzano un pane” (dell’Eucaristia, della fraternità) per il corpo di Cristo che è la Chiesa.
Mirco Micci, nel giorno della sua Ordinazione a diacono
Raccontaci un po’ di te, Mirco… C’era una volta … scherzi a parte, ho 31 anni e sono originario di Marotta, ma con radici corinaldesi (ogni corinaldese vero ci tiene a ricordarmelo!). Ho una sorella farmacista, almeno come diceva mio nonno, “una cura il corpo, l’altro l’anima” e una mamma che lavora in albergo, ma che cucina come se lavorasse in un ristorante. Le mie radici di fede invece, oltre che in famiglia, vengono dalla parrocchia di S. Giuseppe di Marotta in cui sono cresciuto, all’ombra del campanile, più che metaforicamente, quasi geograficamente. Un’altra radice profonda è quella diocesana, in particolare della Pastorale giovanile nella quale ho vissuto un tempo di servizio e nella quale penso di poter dire sia fiorita la mia vocazione sacerdotale. Tra l’eterna diatriba “mare o montagna” invece le mie radici le rinnego, scegliendo la montagna! Sono ragioniere di formazione, ma quando ho capito che i conti nella vita non tornavano, ho lasciato il lavoro in banca per lanciarmi nell’avventura vocazionale in Seminario. Ed ecco siamo ad un primo giro di boa di questo percorso, dopo quasi 11 anni dal tempo della prima intuizione vocazionale e 8 di cammino di Seminario.
Quale bagaglio esperienziale più significativo porti in vista di questo giorno? La profonda gratitudine è anzitutto per il Signore. Porto con me le radici più profonde, a partire dalla mia famiglia, semplice, umile, imperfetta come tutte, dalla quale ho ricevuto tanto e nella quale ho sperimentato le “prime volte” dell’amore, dove ho vissuto le prime battaglie, le prime domande di senso sulla vita e da ultimo, recentemente, sulla morte e la vita eterna. Sono grato per tutto. Poi sento una gratitudine immensa per i luoghi in cui, la vita nuova del Battesimo è cresciuta e si è nutrita. A partire dalla parrocchia e dalla Pastorale giovanile e soprattutto per l’esperienza del Seminario. Difficile sintetizzarla. È stato percorso di fede e discernimento, scuola di comunione, amicizia e fraternità, esercizio di morti e resurrezioni, incubatrice di vocazione, trampolino di lancio per il ministero. E’ significativa anche l’esperienza del lavoro, che ho svolto per 3 anni, con le sue fatiche e soddisfazioni, concretezze e quotidianità. A volte penso che faccio una vita molto diversa da quella della maggioranza delle persone e sento il rischio di svolazzare nella teoria. Mi fa bene ricordare (poi se questo si vede è un altro paio di maniche) che sull’altare, ciò che diventa Eucarestia è “frutto della terra e del lavoro dell’uomo”.
Qualche giorno fa il Papa, incontrando il Seminario marchigiano, ha detto senza tanti giri di parole: “Un sacerdote può essere molto disciplinato, può essere capace di spiegare bene la teologia, anche la filosofia, tante cose, ma se non è umano, non serve”. Come risuonano in te queste parole? E’ stato un bel regalo in vista dell’Ordinazione, questo incontro! Chiaramente quello che ci ha detto è risuonato in modo molto forte. Sull’umanità del prete si è detto tanto e c’è ancora da dire, forse nel passato è stato un terreno poco dissodato, per tanti motivi. Dire che il prete deve essere umano non significa dire che il prete deve essere sempre gentile ed educato, perfettino, lontano dalle parolacce. Certo, ci sarà pure questo. Ma l’umanità che è chiamato a vivere il prete, almeno desidero che sia così, è l’umanità bella, piena, perché redenta, perché si è lasciata amare da Dio, perché riconciliata. Se Cristo ti plasma il cuore, se veramente ti lasci lavorare da Lui, rimani in un atteggiamento di ascolto e conversione, la tua umanità lo manifesta. è fatta apposta! Dietro i tuoi gesti, quelli di un Altro, dietro il tuo amore, quello di un Altro. Ogni vocazione manifesta un tratto del volto bellissimo di Cristo. Conoscete un santo che non era umano? Poiché era cristiano veramente, era umano in modo splendido! La vera umanità, quella più bella, è la santità. Come direbbe il papa un’umanità misericordiata! In questo senso un prete poco umano non serve. Cioè non può mettersi a servizio. Ecco detto questo, mi do una pacca sulla spalla da solo, mi faccio coraggio e mi affido a Dio.
Un percorso di avvicinamento all’Ordinazione fortemente condizionato dalla pandemia: questo ‘tempo sospeso’ in cosa ti ha maggiormente aiutato, cosa ha reso invece più pesante? “Tempo sospeso” non mi piace tanto, anche se la tentazione di viverlo così c’è. Credo sia stato un tempo diverso. Al magico “andrà tutto bene”, ho sempre preferito il biblico “tutto concorre al bene, per quelli che amano Dio” (Rom 8, 28). E di sicuro mi ha fatto crescere almeno un po’ in pazienza e poco non è (in particolare il ripetuto rinvio dell’Ordinazione era diventata una barzelletta!). Un tempo, da un punto di vista comunitario, che ci ha aiutato a vedere meglio lo stato di salute spirituale delle nostre parrocchie e di questo non potremo non tenerne conto in futuro. Quello che mi ha appesantito è stata la fatica nelle relazioni, nelle organizzazioni varie e nel vivere momenti informali. Ha reso sicuramente più faticoso, ma anche fantasioso, il radicamento nell’unità pastorale che sto servendo da settembre. Niente in confronto a quello che hanno vissuto molte famiglie per via della mancanza di lavoro, prospettive, speranza, salute ecc. Alla fine posso dire di essere contento di essere ordinato dentro questo tempo così strano. Nel Signore si può vivere la gioia in qualsiasi situazione. Mi rimarrà ancora più evidente il richiamo al fatto che la storia la guida il Signore e non noi con i nostri ideali e progetti. è un invito alla sequela marchiato a fuoco, anzi, a olio nella mia vita.
Don Andrea Rocchetti, dallo scorso settembre parroco della comunità di Marina di Montemarciano, ci racconta la sua esperienza in questa nuova realtà pastorale.
don Andrea Rocchetti
Ho 46 anni , sono prete da vent’anni e sono stato ordinato nel 2001 a Corinaldo. Sono tra i preti che sono stati “spostati” e la mia esperienza è iniziata a settembre. Vengo dalla parrocchia di Monte San Vito e di Borghetto, dall’unità pastorale Koinè, e sono stato trasferito a Marina di Montemarciano nella parrocchia San Maria della Neve e San Rocco. L’immagine che può essere usata per raccontare il mio cambiamento è quella del deserto. Come il popolo di Israele è stato chiamato dalla schiavitù d’Egitto e il primo passo della propria libertà è stato il deserto, così è stata la mia prima esperienza. Ho cambiato comunità in tempo di Covid e in parrocchia c’era il deserto delle persone e anche la sete di messa, di incontri, di formazione, di liturgie e anche di liturgia, una situazione grandissima di precarietà, l’incertezza per il futuro. Questa è stata anche la mia situazione personale. Per me che ero abituato alle relazioni, agli incontri, a stare in mezzo alla gente, ritrovarmi in una condizione di pandemia è stato complicato. Però dentro questo deserto c’era, e c’è ancora anche adesso, libertà, la ricerca della libertà, la ricerca di un’autenticità, di una terra promessa, di un posto in cui il Signore ti chiama a stare, ad abitare, che è il tuo, per te, è la promessa che il Signore ha fatto a te. Per fare questo c’è il deserto di mezzo, una purificazione, il rimettere in discussione le proprie tradizioni, le proprie attività della quotidianità e anche tutto quello che ti porti dietro dalle altre parrocchie. Devo dire che il cambio parrocchiale l’ho sentito parecchio, è stato molto più forte. Da viceparroco non si sente così tanto, sei con i giovani, lavori con loro, li rincontri anche da altre parrocchie. Da parroco, con dieci anni di relazioni e di amicizie alle spalle, è diverso. Devo essere onesto, dopo dieci anni di unità pastorale Koinè, ho sentito proprio lo strappo! Io sono stato abituato sempre a “tagliare”, una volta che si cambia parrocchia si taglia, ma in questo caso sono stato combattuto e ho scelto per certe amicizie vere, per certe relazioni autentiche di non tagliare, perché le ho riconosciute come dono sincero di Dio e quindi da custodire, da conservare, da alimentare, nonostante ora sia in un altro ambiente, in un’altra parrocchia. Ecco, adesso sono qui a Marina di Montemarciano. Che cosa mi terrà il Signore per il futuro? Non lo so. Di una cosa sono certo: che questo mio viaggio è un viaggio di liberazione per raggiungere una terra promessa. Il Signore mi tiene da parte una promessa qui, a Marina di Montemarciano e sono molto curioso di vederla, sono molto emozionato nell’attenderla. In questo momento sto proprio attendendo che la promessa di Dio per la mia vita si realizzi.
Anche quest’anno i sacerdoti della diocesi di Senigallia si sono ritrovati per un tempo disteso e prolungato per discutere di un tema e nello stesso tempo vivere insieme alcuni giorni in uno stile di fraternità e comunione. Il luogo che ci ha accolto è stato la Domus Ecclesiae a Nocera Umbra e l’occasione di spostarci in Umbria ci è stata suggerita dal nostro relatore che ha animato la riflessione e il dibattito ovvero Luciano Paolucci Bedini, vescovo di Gubbio. A lui abbiamo chiesto di proporci delle riflessioni a partire da questa domanda: “Quale presbiterio per la nostra Chiesa diocesana?”. Già la domanda ci suggerisce il cammino fatto in questi anni, in particolare a partire dal 2008 quando era uscito un documento della diocesi: “Quale presbitero per la nostra Chiesa diocesana?”; come si può notare il tema a distanza di anni differisce di una sola lettera (presbitero-prespiterio) eppure esprime un cambio di prospettiva e quindi di consapevolezza di una identità. Se infatti fino ad ora la riflessione era partita dal prete come individuo e come persona inserita all’interno di una comunità, ora si scelto di partire dal presbiterio cioè l’insieme dei preti di una diocesi uniti al proprio vescovo, il quale possiede la pienezza del sacerdozio e che si avvale della collaborazione dei sacerdoti per servire al meglio quella porzione di popolo a lui affidata. Questo cambio di prospettiva da presbitero a presbiterio corrisponde ad una serie di mutazioni sociali e ecclesiali che si sono verificate nel tempo e che riscontriamo nel presente: il calo dei sacerdoti e l’impossibilità di una loro presenza capillare nel territorio; la vita del sacerdote sempre più messa alla prova sui vari fronti; una vita fraterna che recupera alcune dimensioni umane e affettive della vita del prete; il coinvolgimento e il ruolo attivo dei laici nella vita delle comunità; la gestione amministrativa e economica sempre più complessa e alle prese con tante strutture vecchie e non più a norma. Se il sacerdote dentro queste sfide si pensa o si ritrova da solo a doverle affrontare e gestire, alto è il rischio di burn-out o di un irrigidimento nei modi e nelle relazioni e la gente lo percepisce vedendo il prete sempre più stanco, affannato e scostante. La chiave di volta è proprio pensarsi a partire dalla dimensione comunionale e fraterna del presbiterio; non da soli quindi ma in comunione con il vescovo e i confratelli, dove ci si sostiene e dove le gioie e i problemi vengono condividi e portati insieme. Detto così è molto bello e assomiglia molto alla chiesa primitiva degli apostoli dove tutto veniva messo in comune e ognuno riceveva l’aiuto di cui aveva bisogno. Nella realtà dei fatti è un cammino in divenire, che presenta dei segnali positivi di crescita, ma anche comprensibili resistenze e diversità di approcci. Uno degli elementi più sensibili è per esempio il rapporto tra generazioni di preti avendo ricevuto formazioni diverse, in tempi storici diversi, con un’idea di chiesa da realizzare diversa. Queste differenze normali e storiche si superano non tanto a suon di discussioni, per vedere chi ha più ragione, ma in uno scambio fraterno fatto di ascolto e di narrazione, di risate e testimonianze di vita spirituale. Per questo occasioni come questa vissuta a Nocera Umbra sono preziose e arricchenti perché al di là dei contenuti che si mettono in campo c’è la possibilità di conoscersi sempre meglio e cogliere in ciascuno il positivo che può portare, il suo “unicum” che il Signore gli ha consegnato e affidato. Il vescovo Luciano ci ha incoraggiato ad andare avanti su questo cammino ricordandoci che non siamo all’anno zero ma alcuni piccoli passi sono stati fatti e tanti sono alla nostra portata. Nel dialogo fraterno si è parlato di come stare dentro le realtà del mondo quali la politica, la scuola, la cultura; si è parlato di famiglia e del ruolo dei laici nelle nostre comunità; si è parlato di giovani e di vocazioni, come essere “testimoni gioiosi” di questa chiamata ad essere pastori e “amici dello Sposo”. Erano presenti anche alcuni preti anziani che hanno espresso la loro gioia di essere parte di questo presbiterio richiamando però anche l’attenzione ad avere cura di loro e non considerarli come “fanalino di coda”, ma tenere presente che ci sono, che pregano per la chiesa e per il mondo e che devono affrontare malattie e fragilità e hanno bisogno del sostegno di tutti. La stessa esperienza si ripeteràin questi giorni con un altro gruppo di preti (per consentire a tutti di partecipare sono previsti due turni distinti) e siamo certi che ci saranno ulteriori elementi di crescita e di riflessione. Chi ben comincia è a metà dell’opera….
Davide Barazzoni
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